Il Blog della Penna Rossa

Celebrale o cerebrale?

R o L?   Scriveresti mai albitro? E allora perché celebrale sì? Storia di una parola Usi ed errori   Alzi la mano chi non ha mai letto “celebrale”! Sii sincero: tu l’hai mai scritto? (E occhio a come rispondi, che le BACCHETTATE sono in agguato!)   Io lo so che in tua difesa potresti dire che ormai lo vedi scritto dappertutto. E con dappertutto intendo non solo su WhatsApp, non solo sui social, non solo sui giornali (che sono portatori ambulanti di refusi) in testi di tipo generalista, ma, purtroppo, a volte anche in testi che vorrebbero essere specialistici!   In effetti, potresti anche notare, se mi segui da un po’, che spesso a vincere sul lungo periodo è la regola della consuetudine d’uso.   Per dire, se da quando è stato detto per la prima volta la stragrande maggioranza dei parlanti avesse iniziato e continuato a usarlo, oggi petaloso farebbe parte del nostro vocabolario. Tuttavia… oggi la questione è un po’ diversa.   Ti faccio un esempio pratico: scriveresti mai albitro?   Spero vivamente per te di no… e soprattutto non nei testi della comunicazione online della tua azienda, a meno che tu non voglia far scappare tutti i tuoi clienti dalla concorrenza più precisa e meno superficiale di te. (Se non è questo che vuoi, ma vuoi che i tuoi testi siano dei magneti attira-clienti, CLICCA QUI e iscriviti alla newsletter per non perderti nemmeno un articolo della Penna Rossa e scoprire tutti gli errori che non devi mai fare scrivendo!)   Perciò… ora andiamo a scoprire perché celebrale è sbagliato, e come dobbiamo scriverlo!     STORIA DI UNA PAROLA Cerebrale è un aggettivo legato al sostantivo cerebro, ovvero alla parola dotta, che ormai si usa soltanto in contesti poetici o per imitare un linguaggio antico, che in italiano indica il cervello.   Cerebro deriva direttamente dal latino cerebrum (cervello), dal quale ha origine, sempre in latino, il diminutivo cerebellum. E da cerebellum arriva la parola italiana cervello!   Lat. cerebrum → it. cerebro Lat. cerebellum → it. cervello   La cosa importante da notare in queste parole è che è sempre presente la r dopo la prima e, sia nel caso di cerebrum/cerebro, sia per cerebellum/cervello.   Quindi… poiché cerebrale è l’aggettivo italiano derivato dal sostantivo cerebro, con il significato letterale “del cervello”, mantiene in ogni caso la r! Sostantivo cerebro → aggettivo cerebrale     USI ED ERRORI Perciò, ora che sappiamo esattamente da dove arriva la parola cerebrale, vediamo oggi cosa significa esattamente e come si usa… ovviamente consultando la Treccani!   cerebrale: agg. [der. di cerebro, con influenza, nel sign. fig., del fr. cérébral]. – 1. a. In anatomia, del cervello o dei suoi costituenti: circonvoluzioni c., emisferi c.; arterie c.; corteccia c., sostanza grigia che forma lo strato superiore degli emisferi cerebrali; […]  b. In medicina, di condizione morbosa e malattia riferibili al cervello e per estens. all’encefalo: commozione, compressione, contusione, edema, embolia, emorragia, paralisi, rammollimento, trombosi, tumore cerebrale. 2. a. letter. Di opere d’arte o di pensiero in cui la netta prevalenza del raziocinio, della riflessione, dell’abilità tecnica sugli elementi estetici, affettivi, fantastici riduce notevolmente (spesso anche per specifico programma ideologico e poetico) la spontaneità e l’immediatezza dell’espressione: poesia, pittura, musica, arte c.; una commedia c., troppo cerebrale.    In sostanza, cerebrale oggi si usa:  in ambito medico/anatomico per indicare tutto ciò che concerne il cervello in modo metaforico, per indicare qualcosa di basato prevalentemente sul raziocinio, la riflessione e l’abilità tecnica   Vediamo alcuni esempi: Se non metti il casco e sbatti la testa, rischi una commozione cerebrale. Una lesione cerebrale può provocare la paralisi di un lato del corpo. Possiamo definire Kafka uno scrittore cerebrale.   Come vedi, l’unico modo di scrivere questo aggettivo è, come abbiamo appena visto, cerebrale, ovvero con la r. Lo stesso vale per tutte le parole derivate da cerebro, come cerebrospinale, cerebroleso, cerebropatia, cerebriforme, cerebrovascolare e via dicendo.   Ma perché a volte il correttore automatico non segna celebrale come errore?   Perché, di fatto, questa parola esiste… ma significa tutt’altra cosa, e l’accento cade sulla prima e e non sulla a: cèlebrale è un verbo all’imperativo, voce del verbo celebrare.   Ed ecco una possibile spiegazione per tutti quelli che vengono tratti in errore: esiste effettivamente un’intera famiglia di parole con radice celebr-, ed è quella legata al sostantivo celebrazione.   Da qui derivano celebrità, celebre, celebrare, celebrazione, tutti legati al latino celĕber -bris -bre, ovvero «frequentato, popoloso, affollato», quindi «solenne, rinomato».   Ma come vedi… si tratta di un’altra parola, decisamente non intercambiabile!     QUINDI… Stavolta, la questione si risolve in maniera estremamente semplice e chiara:   si scrive sempre CEREBRALE  (e non celebrale)   A meno che tu non voglia usare l’imperativo presente del verbo celebrare!   Ora tocca a te. Cosa serve ai tuoi testi, oltre alla correttezza grammaticale e ortografica, per attirare frotte di clienti che non chiedono altro che leggerne ancora… per poi decidere che tu e il tuo prodotto siete esattamente ciò che stanno cercando? Ti serve la tecnica della Scrittura Persuasiva! Il Modellista Umberto Masiello ha pubblicato il suo primo libro:   TRASFORMA LE TUE PAROLE IN SOLDI La Scrittura Persuasiva che alza il tuo fatturato   Sei pronto a imparare le tecniche per scrivere dei testi che si infilino nella mente dei tuoi Clienti Su Misura… portando alla tua azienda il fatturato che hai sempre sognato?   Clicca qui per acquistare subito la tua copia!   E per scoprire altri errori da NON fare… … ci vediamo lunedì prossimo!   La Penna Rossa   BIBLIOGRAFIA BARATTER P., Il punto e virgola. Storia e usi di un segno, Carocci, Roma 2018. BECCARIA G.L., Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Einaudi, Torino 2004. BERRUTO G., Corso elementare di linguistica generale, UTET, Torino 2012. CARRADA L., Paroline & Paroloni; Zanichelli, Bologna 2018. CANNAVACCIUOLO A., Manuale di copywriting e scrittura per il web, Hoepli, Milano 2019. CERRUTI M., CINI M., Introduzione elementare alla scrittura accademica,

Articoli e nomi geografici

Con i toponimi ci vuole l’articolo?   Una gran varietà di casi Stati, città e luoghi dell’uomo Isole,  fiumi, monti e luoghi naturali   Perché l’Elba vuole l’articolo e Capri no? E perché scrivi “la Francia” ma non “la Cuba”?   Hai mai fatto attenzione ai nomi geografici e al loro rapporto con gli articoli?   Probabilmente, no… ma prova a farci caso adesso.   Pensa a nomi di luoghi, città, isole, monti e fiumi, e prova a metterci un articolo. Il Texas e Israele Roma e L’Aquila Lampedusa e l’Asinara   Potremmo continuare a lungo, ma non serve per accorgerci che c’è un’enorme varietà e confusione. Per prima cosa dobbiamo stabilire se e quando ci vuole l’articolo; poi dobbiamo capire di che genere, ovvero se maschile o femminile. E non è semplice e lineare come potrebbe sembrare!   Ovviamente, non sono scelte che puoi fare a caso: ci sono delle regole ben precise.   E in questo caso… anche una marea di eccezioni “perché sì” (o quasi).   Nel mondo di oggi, tutti, quando parliamo o scriviamo, abbiamo a che fare abbastanza di frequente con i toponimi (e non solo se hai un’agenzia viaggi), e se ti capita di doverli scrivere nei testi per la comunicazione online della tua azienda non puoi permetterti di sbagliare! Refusi simili ti renderebbero un dilettante superficiale agli occhi dei tuoi clienti… e immagino non sia quello che vuoi! (Quindi, CLICCA QUI e iscriviti alla newsletter per non perderti nemmeno un articolo della Penna Rossa e scoprire tutti gli errori che non devi mai fare scrivendo!)   Perciò… andiamo a scoprire se, quando e quali articoli ci vogliono con i nomi geografici!     STATI, CITTÀ E LUOGHI DELL’UOMO Innanzitutto, chiariamo subito che stiamo parlando di articoli determinativi, ovvero il lo la, i gli le (anche tu ricordi la cantilena dalle elementari?). Gli articoli determinativi si usano in riferimento a una categoria generale di persone, animali, oggetti, concetti, oppure per riferirsi o a qualcuno o qualcosa di già noto a chi legge, parla o ascolta (questo secondo caso è il nostro).   Purtroppo, come abbiamo già accennato, “con i nomi di luogo la presenza di articolo e di preposizione articolata è legata ad usi complessi e non sempre riducibili a norme generali” (come dice Luca Serianni nella sua grammatica).   Perciò… Non ci resta che vedere caso per caso!   Regioni, Stati, continenti Di norma, l’articolo ci vuole. Esempi: Il Piemonte, l’Emilia-Romagna, la Bretagna L’Italia, la Norvegia, il Kazakistan L’Europa, l’America, l’Asia   NB: l’articolo in genere non si usa quando il nome è retto da di o in. Esempi: Navigare in America, andare in Piemonte, il re d’Inghilterra.   Tuttavia… ci sono delle eccezioni: alcuni Stati NON vogliono mai l’articolo! Esempi: Israele, Cuba, Cipro, Haiti, Taiwan   Città In generale, l’articolo non ci vuole. Esempi: Roma, Torino, New York, Parigi, Poznan   Ma esistono città che hanno l’articolo integrato nel loro nome: Esempi: La Spezia, L’Havana, La Valletta, Il Cairo, L’Aquila, Los Angeles   Tuttavia, l’articolo si usa sempre se il nome di città è accompagnato da un aggettivo: Esempi: La bella Torino, la Roma imperiale, la Londra vittoriana   Infine, è interessante notare che se mettiamo un articolo prima di un nome di città, significa che stiamo parlando della squadra di calcio: il Cagliari, la Roma, il Torino.   Quartieri, zone cittadine, luoghi d’interesse, monumenti In generale, l’articolo ci vuole ( e sicuramente SEMPRE in caso di un monumento): Esempi: il Quirinale, la torre di Pisa, il Bronx, il Castello Sforzesco, il Colosseo, la Mole Antonelliana   Ma le eccezioni sono numerosissime (in particolare, Serianni fa notare che per quanto riguarda i quartieri ognuno fa storia a sé): Esempi: Trastevere, Pigalle, Palazzo Tè, Castel Sant’Angelo   Vie e piazze In generale, l’articolo non ci vuole. Esempi: via dei Condotti, via Roma, piazza San Marco     ISOLE, FIUMI, MONTI E LUOGHI NATURALI Come hai appena visto, per quanto riguarda i “luoghi dell’uomo” non c’è una regola univoca. E, mi spiace dirtelo, nemmeno ora… ma non perdiamoci d’animo e andiamo a vedere!   Isole Le isole sono un gruppo molto interessante, perché possiamo suddividerle in diverse categorie.   Grandi isole Generalmente, vogliono l’articolo. Esempi: la Sardegna, la Sicilia, la Corsica   Piccole isole Di norma non vogliono l’articolo. Esempi: Capri, Ischia, Ponza, Lampedusa, Stromboli, Vulcano, Lipari   Ma alcune fanno eccezione e lo vogliono! Esempi: l’Elba, l’Asinara, il Giglio   I gruppi di isole Di norma, vogliono l’articolo. Esempi: le Egadi, le Eolie, le Azzorre, le Hawaiii, le Filippine, le Barbados   Grandi isole considerate “esotiche” Di solito, non vogliono l’articolo. Esempi: Cuba, Maiorca, Cipro, Taiwan, Sumatra, Malta   Monti, fiumi, laghi, valli, vulcani Di solito, in tutti questi casi ci vuole l’articolo. Esempi: il Monte Bianco, il Po, la Dora Baltea, il lago di Garda, il ma Nero, la Val Gardena, il Vesuvio     QUINDI… Stavolta, non c’è niente da fare: esistono una miriade di casi diversi ed eccezioni, e generalizzare è molto difficile.   Perciò, c’è una sola soluzione: quando sei in dubbio, quando qualcosa ti suona strano, controlla sempre sul dizionario o su una grammatica.. A forza di cercare, di leggere e scrivere più e più volte, alla fine ti verrà naturale fare sempre la scelta giusta!   Ora tocca a te. Vuoi potenziare ancora di più i testi della tua comunicazione, entrando a fondo e scavando nel dialogo mentale del tuo Cliente Su Misura, l’unico che non vede l’ora di comprare da te e riconosce il valore del tuo lavoro? Ti serve la tecnica della Scrittura Persuasiva! 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“A gratis” è corretto?

Dal latino a WhatsApp   Una parola di uso quotidiano Storia di una parola Varianti, regionalismi ed errori   Sapevi che gratis arriva direttamente dal latino? Ma soprattutto… Tu, come lo scrivi?   Gratis è una parola diffusissima oggi: la pronunciamo, la scriviamo, la leggiamo.   Peccato che tante, tantissime volte venga storpiata in brutture da penna rossa.   A gratis, aggratis e via dicendo: scommetto che le hai presenti. Ma spero che tu non le scriva MAI!   Se sei un imprenditore e fai comunicazione online, avrai a che fare molto spesso con la parola gratis: clienti che ti chiedono se un servizio è gratuito oppure no da un parte, e tu che proponi materiali/contenuti/servizi gratuiti dall’altra.   Noi Sarti la usiamo spessissimo, perché dare ai propri Clienti Su Misura dei contenuti fruibili gratuitamente è fondamentale per costruire un rapporto di fiducia, ovvero la base che serve non solo per acquisire clienti, ma soprattutto per mantenerli nel tempo.   Pensa ad esempio al nostro blog: tutte le nostre rubriche sono piene di consigli, suggerimenti e approfondimenti per imprenditori che vogliono far crescere la loro azienda grazie alla potenza della comunicazione online… e sono tutti gratis! (Vuoi essere sicuro di non perdertene nemmeno uno? CLICCA QUI e iscriviti alla newsletter!)   Quindi, gratis è per noi come per te una parola di uso quotidiano: ecco perché è fondamentale scriverla nel modo corretto, specialmente nei testi per la tua comunicazione. E devi assolutamente evitare gli erroracci!   Perciò… andiamo a scoprire qual è il modo corretto di usare gratis… e se “a gratis” è corretto oppure no!     DA DOVE NASCE? Iniziamo come sempre consultando il dizionario:   gràtis avv. [voce lat., forma contratta di gratiis, abl. pl. di gratia «grazia»]. – Gratuitamente, senza pagamento, senza compenso: lavorare, insegnare g.; la rivista si spedisce g. a tutti i soci; godersi g. uno spettacolo. Spesso rafforzato, spec. in frasi ironiche, dall’espressione latina et amore (Dei) «e per amore (di Dio)»: dare, fare qualcosa g. et amore (Dei).   Come vedi, così come abbiamo detto all’inizio dell’articolo, gratis deriva direttamente dal latino.  Non è quindi un concetto moderno legato al marketing, o derivante dall’inglese come alcuni potrebbero pensare: è a tutti gli effetti una parola latina entrata in italiano.   Osservando la sua origine, ovvero la parola gratia, possiamo osservare come in latino il suo significato fosse qualcosa come “per i favori, grazie alle benevolenze”, e quindi successivamente si arriva al significato di “gratuitamente” così come lo intendiamo oggi.   Interessante da notare è anche l’uso nei modi di dire della parola grazia (legata semanticamente a gratis): magari non hai mai usato l’espressione latina, ma potrebbe esserti capitato di dire “faccio questa cosa per la grazia”, ovvero farla senza ricevere niente in cambio, oppure di “fare la grazia a qualcuno” quando si smette di esigere un qualcosa di dovuto.   Tornando a gratis: quando entra ufficialmente in italiano?   Nel Quattrocento la forma è già attestata, ma per trovarla effettivamente inserita nel vocabolario dobbiamo aspettare l’inizio del 1600 dove lo troviamo accanto alla voce “graziosamente”, e la fine del 1600 per trovarlo aggiunto in fondo alle voci “a grato” e “di grato”, con la definizione di “senza ricompensa”.   Tuttavia… nell’Ottocento, anche a gratis inizia a comparire nei vocabolari!     VARIANTI O ERRORI? Però, attento, ti freno subito: è vero che ho appena detto che a gratis entrò nei vocabolari, ma solo in quelli dialettali, in particolare piemontese, milanese e bergamasco.   Quindi, l’area di origine di a gratis fu il Settentrione: da lì però si diffuse in tutta la penisola, veicolata anche dall’uso che se ne faceva sui giornali.   Ma attenzione: non è MAI stato riconosciuto come italiano standard, ma sempre come tratto del parlato di livello popolare-incolto.   Perciò, tu non usarlo: a gratis è a tutti gli effetti un errore in italiano standard.   E allora, perché è così tanto diffuso, insieme alle forme aggratis e aggratisse (ugualmente errate, in quanto ancora più appartenenti a registri bassi)?   I motivi principali sono due:   L’analogia con altre espressioni semanticamente collegate, come a sbafo, a ufo, a scrocco, ma anche a pagamento   L’uso di espressioni popolari con finalità ironiche o alla ricerca di un’espressività particolare   Ed ecco svelato l’arcano!     QUINDI… Ricapitolando: come dobbiamo comportarci quando scriviamo i testi per la comunicazione della nostra azienda?   Gratis: forma corretta nell’italiano standard A gratis/aggratis/aggratisse: forme da evitare   L’unico caso in cui potresti decidere di usare una delle forme “sbagliate” è quello in cui tu stia usando un tono molto ironico e un registro basso e colloquiale. Ma attenzione: devi esserne MOLTO ben consapevole di quello che stai facendo e pensare sempre prima di tutto al tuo Cliente Su Misura e al suo modo di parlare.   Ora tocca a te.   Qual è il prossimo passo da fare per rendere i tuoi testi dei veri e propri magneti attira-clienti?   sfruttare tutto il potere della tecnica della Scrittura Persuasiva!   E puoi impararla grazie al manuale del Modellista Umberto Masiello:   TRASFORMA LE TUE PAROLE IN SOLDI La Scrittura Persuasiva che alza il tuo fatturato   Sei pronto a imparare le tecniche per scrivere dei testi che si infilino nella mente dei tuoi Clienti Su Misura… portando alla tua azienda il fatturato che hai sempre sognato?   Clicca qui per acquistare subito la tua copia!   E per scoprire altri errori da NON fare… … ci vediamo lunedì prossimo!   La Penna Rossa   BIBLIOGRAFIA BARATTER P., Il punto e virgola. Storia e usi di un segno, Carocci, Roma 2018. BECCARIA G.L., Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Einaudi, Torino 2004. BERRUTO G., Corso elementare di linguistica generale, UTET, Torino 2012. CARRADA L., Paroline & Paroloni; Zanichelli, Bologna 2018. CANNAVACCIUOLO A., Manuale di copywriting e scrittura per il web, Hoepli, Milano 2019. CERRUTI M., CINI M., Introduzione elementare alla scrittura accademica, Laterza, Roma-Bari 2010. D’ACHILLE P., L’italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2006.

Melograno o melagrana?

Un frutto, TANTI nomi   Molte parole per un solo frutto: come scegliere quella giusta? Il genere dei nomi di piante e frutti Storia di una parola e delle sue varianti   Tu, quando parli del frutto pieno di semini rossi, dici melograno o melagrana? Oppure mela granata, melo granato, pomo granato… E per quanto riguarda il plurale?   Anche lì, la questione non è semplice, perché melagrana/melograno è un nome composto.   Tutti conosciamo questo frutto, e ci sarà capitato di mangiarlo almeno una volta nella vita: si tratta di un frutto particolare, dalla scorza liscia e abbastanza spessa, e pieno di “semini” rossi al suo interno.   Non è comodissimo da mangiare, e spesso si preferisce berne direttamente il succo estratto; ma sapevi che la sua storia inizia da molto lontano? Furono i Fenici a diffonderlo per primi nel Mediterraneo, seguiti poi dai Greci, dai Romani e dagli Arabi; da sempre è simbolo di abbondanza, fertilità e fortuna.   Come puoi immaginare, il suo nome ha attraversato i secoli, ed è per questo il motivo della confusione che regna oggi.   Ma il nostro obiettivo è quello di fare chiarezza e di capire esattamente quale sia la parola corretta da usare… … per far sì che se ti dovesse capitare di scriverlo nei testi della tua comunicazione online, i tuoi testi siano impeccabili!  (Vuoi scoprire quali sono gli errori da non commettere mai quando scrivi, per non far scappare i tuoi clienti a gambe levate? CLICCA QUI e iscriviti alla newsletter!   Perciò… andiamo a scoprire se è più corretto melograno o melagrana e qual è il suo plurale corretto!       NOMI DI ALBERO E NOMI DI FRUTTA La lingua italiana è interessantissima da studiare perché presenta un’enorme varietà.    In questo articolo andiamo a toccare un argomento di cui abbiamo in parte già parlato nell’articolo Arancio, arancia o arancione? (se vuoi rileggerlo, CLICCA QUI), ovvero dell’alternanza di genere nei nomi di alberi e frutti.   In questo specifico frangente, questa alternanza di genere dà origine a significati diversi: nello specifico, come regola generale, osserviamo che la forma maschile indica il nome dell’albero, la forma femminile quello del frutto.   Esempi: melo/mela Pesco/pesca Albicocco/albicocca Banano/banana Pero/pera   Tuttavia… ci sono ovviamente delle eccezioni.   Per fare un esempio, pensa ai nomi degli agrumi: in questo caso, anche il nome del frutto ha forma maschile.   Esempi: limone Bergamotto Cedro   E per quanto riguarda il nostro melograno?   Sicuramente, l’albero ha la forma maschile: melograno.   Ma per quanto riguarda il frutto?     UNA LUNGA STORIA Come ti ho anticipato, il frutto del melograno ha una lunga, lunghissima storia. Partiamo come sempre dal dizionario:   melograno: (tosc. melagrano) s. m. [der. di melagrana]. – Altro nome del granato, pianta della famiglia punicacee, e più frequente di questo nell’uso com.: Il verde melograno Da’ bei vermigli fior (Carducci). In questo caso, il dizionario riporta tre varianti: ma in realtà, ce ne sono molte di più!   Il suo nome scientifico è Punica granatum, derivato da punicus, poiché Plinio il Vecchio lo chiamò in questo modo, ritenendolo originario dell’Africa settentrionale.   Nei secoli, sin da subito (parliamo del 1200 circa) si affermano una marea di varietà di stampo dialettale: pomo granato in Piemonte e Lombardia, pomoingranato e meloingranato nel nord-est, ma anche gramagno e magragno nel veronese, pomo granero e melagrano spostandosi in Emilia; arrivando in Romagna compare il femminile con melaingranata, melagranara e mela granera. L’elenco continua a lungo; in generale, andando verso sud troviamo una prevalenza femminile.   Con il passare del tempo, lentamente alcune forme cadono in disuso: per quanto riguarda il frutto, fino al XX secolo resistono melagrana (Toscana), melagranata (centro-sud), pomo granato (settentrione) e granato (Veneto e meridione). Inoltre, dal XVI secolo si affermano, in particolare al centro-nord, melagrano (che poi diventa melograno), melagranato e melogranato.   I dizionari nei secoli hanno registrato questa varietà, con l’aggiunta di mela punica; in generale, fino alla sua quinta edizione il Vocabolario della Crusca ha per frutto melagrana e melagrano per l’albero, introducendo melograno nella quinta insieme alla specifica che può valere anche per il frutto.   E oggi?   Oggi, secondo i dizionari l’albero si indica con melograno; rimangono segnalate semplicemente come regionalismi melagrano, ma anche pomo granato, granato e melogranato.   Il frutto viene indicato “ufficialmente” come melagrana o in forma desueta melagranata; granata viene considerato termine tecnico dell’agricoltura e pomogranato come regionalismo. Tuttavia… anche la forma melograno è considerata corretta per indicare il nome del frutto.   Non solo: nell’uso, la forma maschile per il frutto sta prendendo sempre più piede, soprattutto quando si parla del succo: basta cercare su Google per scoprire che “succo di melograno” compare il doppio di “succo di melagrana”.   E per il plurale?   Qui, per fortuna, la risposta è semplice: per quanto riguarda melograno e melagrana, ovvero le due forme attualmente in uso, si considerano inscindibili e non composte, perciò abbiamo: melograni melagrane     QUINDI… A questo punto, mi rendo conto che potresti avere le idee un po’ confuse. Perciò, semplifichiamo la faccenda! A meno che tu, a seconda dei clienti a cui ti rivolgi, non abbia bisogno di usare parole desuete o regionalismi, le forme dell’italiano standard di oggi sono:   Albero: melograno Plurale: melograni Frutto: melagrana/melograno (con la forma maschile che tende a essere sempre più usata) Plurale: melagrane/melograni   Visto? Siamo passati verso secoli di varianti… per approdare finalmente a sole due parole!   Ora tocca a te.   Dopo aver reso i tuoi testi a prova di bomba per tutti i clienti grammar-nazi (e in Italia sono TANTISSIMI), sei pronto per il prossimo passo per renderli ancora più efficaci e in grado di conquistarli tutti: la tecnica della Scrittura Persuasiva! E puoi impararla grazie al manuale del Modellista Umberto Masiello:   TRASFORMA LE TUE PAROLE IN SOLDI La Scrittura Persuasiva che alza il tuo fatturato   Sei pronto a imparare le tecniche per scrivere dei testi che si infilino

“Aspirapolvere” è maschile o femminile?

Una parola, multipli problemi Secondo te, aspirapolvere è maschile o femminile?   E non te lo chiedo come questione filosofica, ma per un motivo pratico: quando scrivi, scrivi di volere una nuova aspirapolvere, o un nuovo aspirapolvere?   In effetti, si tratta di una parola insidiosa, per due motivi:   è una parola composta inizia per vocale, quindi l’articolo determinativo che l’accompagna è l’   Perciò, il suo genere non è immediatamente deducibile come invece accade per IL forno o LA lavatrice.   E non solo… trattandosi di un nome composto, come se non bastasse, anche il plurale può creare dei problemi!   Due belle aspirapolvere? Tre begli aspirapolveri?   Il rischio di errore è alto: ma se devi parlare di aspirapolvere nella comunicazione della tua azienda (magari vendi questo tipo di prodotto, oppure ti capita di parlarne in blog e newsletter perché è uno strumento che i tuoi clienti usano spesso, o che potrebbe essere utile abbinato al tuo prodotto…) devi sapere CON PRECISIONE come usare questa parola in modo corretto: non puoi sbagliare né plurale né genere…   … se non vuoi che i tuoi clienti si concentrino sul tuo errore e non su quello che stai dicendo loro. Quindi, mi raccomando: cura sempre i tuoi testi nei minimi particolari e non lasciare che i refusi facciano scappare i tuoi clienti dritti tra le braccia della concorrenza CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti nemmeno un articolo della Penna Rossa per capire come riuscirci!).   Perciò… andiamo a scoprire se aspirapolvere è maschile o femminile e qual è il suo plurale corretto!     NOMI COMPOSTI E PLURALE Punto primo: aspirapolvere è indubbiamente un nome composto.   Di che stiamo parlando, esattamente?   I nomi composti sono quei nomi che nascono dall’unione di due parole: possiamo avere parole composte da nome + nome, nome + aggettivo (e viceversa), aggettivo + aggettivo, aggettivo + verbo e via dicendo.   Magari non sei abituato a farci troppo caso, ma la nostra lingua ne è piena: pensa a pescespada, arcobaleno, cassaforte, francobollo, caposquadra e via dicendo.   Come vedi, nei composti vengono combinate parole di diverso tipo: aggettivi sostantivi verbi   La questione si fa spinosa quando dobbiamo formare il plurale di queste parole, perché ovviamente non possiamo farlo a caso: ci sono delle regole ben precise.   Solo che… essendoci tante casistiche diverse, ci sono altrettante regole: ecco perché ho scritto una serie di articoli approfonditi a riguardo.   Li trovi qui: Il plurale delle parole composte – I Il plurale delle parole composte – II Il plurale delle parole composte – III Il plurale delle parole composte – IV   Ora andiamo al sodo con la parola che stiamo esaminando: aspirapolvere. Si tratta di un composto verbo + sostantivo singolare; perciò   al plurale rimane invariato.   Esempi: Un aspirapolvere; dieci aspirapolvere   Mi raccomando: che non ti venga mai in mente di scrivere aspirapolveri, altrimenti BACCHETTATE!   E per quanto riguarda il genere?     NOMI COMPOSTI E GENERE Abbiamo visto che aspirapolvere è un nome composto da un verbo + un sostantivo, che in questo caso è di genere femminile. Questo però non significa che aspirapolvere prenda il genere del sostantivo che lo compone:    aspirapolvere è infatti di genere maschile!   Come conferma la Treccani:   aspirapólvere s. m. [comp. di aspirare e polvere], invar. – Apparecchio elettrodomestico, usato per asportare polvere e altri piccoli rifiuti da mobili, pavimenti, pareti, indumenti e sim. […]   Ma perché? Per prima cosa, dobbiamo notare che la grande maggioranza dei composti di questo tipo è infatti di genere maschile, indipendentemente dal genere del nome al suo interno.   Esempi: lo scolapasta, il tritacarne, il reggicalze, lo scaldabagno, il cavatappi   Quindi, come viene assegnato il genere?   In italiano, in linea generale, può dipendere da aspetti formali (ad esempio, una parola che termina in -a spesso sarà di genere femminile), oppure in base al significato del nome (a volte basandosi sul genere dell’iperonimo, o un sostantivo semanticamente affine, o di un traducente se si tratta di un forestierismo).   In questo caso quindi possiamo ipotizzare un’assegnazione di tipo semantico, in particolare basata sul genere dell’iperonimo, ovvero all’associazione a  parole come oggetto, strumento, apparecchio e simili.   Ma da dove nasce l’errore?  Perché a volte viene da pensare che aspirapolvere possa essere femminile?   Questo accade perché diversi nomi di elettrodomestici sono invece femminili: lavastoviglie, lavatrice, lavasciuga e via dicendo. In questi casi, a parte le evidenti formazioni femminili con il suffisso –trice, abbiamo l’accostamento all’iperonimo macchina più che ad apparecchio (macchina lavastoviglie) e di conseguenza l’assegnazione del femminile e non del maschile.   Ed ecco svelato il nostro arcano!     QUINDI… Non c’è alcun dubbio: tutti i dizionari concordano.   Aspirapolvere: genere maschile; plurale invariato Es. un aspirapolvere; gli aspirapolvere   Non scrivere mai aspirapolveri, e non mettere mai apostrofi che indicherebbero un genere femminile.   Ora tocca a te.   Vuoi potenziare ancora di più i testi della tua comunicazione, entrando a fondo e scavando nel dialogo mentale del tuo Cliente Su Misura, l’unico che non vede l’ora di comprare da te e riconosce il valore del tuo lavoro? Ti serve la tecnica della Scrittura Persuasiva! Il Modellista Umberto Masiello ha pubblicato il suo primo libro:   TRASFORMA LE TUE PAROLE IN SOLDI La Scrittura Persuasiva che alza il tuo fatturato   Sei pronto a imparare le tecniche per scrivere dei testi che si infilino nella mente dei tuoi Clienti Su Misura… portando alla tua azienda il fatturato che hai sempre sognato?   Clicca qui per acquistare subito la tua copia!   E per scoprire altri errori da NON fare… … ci vediamo lunedì prossimo!   La Penna Rossa   BIBLIOGRAFIA BARATTER P., Il punto e virgola. Storia e usi di un segno, Carocci, Roma 2018. BECCARIA G.L., Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Einaudi, Torino 2004. BERRUTO G., Corso elementare di linguistica generale, UTET, Torino 2012. CARRADA L., Paroline & Paroloni;

Questo, codesto e quello

Sai scegliere bene? “Voglio questo libro, quel giornale e codesta penna!” Sai spiegare le differenze tra questi tre aggettivi (che possono essere anche pronomi)… ma soprattutto, sei sicuro di saperli usare nel modo corretto?   La settimana scorsa sono stata a Lucca Comics&Games, in Toscana: oltre a dei meravigliosi crostini ai fegatini, ho fatto la scorta di “codesto”.   Per me, che sono originaria del Piemonte e vivo in Emilia-Romagna, codesto quasi non esiste: non lo uso e non lo sento/vedo usare praticamente mai.   Eppure… in questi giorni ho sentito “codesti” spuntare come funghi!   Significa che i toscani sbagliano?   Tecnicamente, no… ma non sbagliamo nemmeno noi che non lo usiamo.   E ti dirò di più: esiste un contesto particolare, sovraregionale, dove codesto si incontra spessissimo!   Ma prima di arrivare qui, dobbiamo partire dall’inizio: cosa rappresenta il trittico questo-codesto-quello?   E come si usa correttamente?   Perché, non dimentichiamolo: il nostro obiettivo è quello di rendere i testi della comunicazione online della tua azienda privi di errori e ben scritti, in modo che possano essere il più efficaci possibile nel raggiungere e conquistare i tuoi clienti! (Per non perderti neanche un articolo, CLICCA QUI e iscriviti alla newsletter!)   Perciò… andiamo a scoprire a cosa servono e come si usano questo, codesto e quello!     QUESTO E QUELLO Partiamo dalla parte più semplice, o meglio, da quella più conosciuta… almeno in teoria.   Si tratta, come abbiamo già accennato, di aggettivi e pronomi dimostrativi, a seconda di come vengono usati; il loro significato però rimane costante e non cambia.   La Treccani li descrive così:   quésto agg. e pron. dimostr. [lat. eccu(m) ĭste, accus. eccu(m) ĭstum]. – Indica cosa o persona vicina nello spazio o nel tempo a chi parla, o considerata comunque come tale nel discorso (contrapp. a quello); più generalmente allude a cosa o persona presente, attuale nel momento in cui si fa o avviene ciò di cui si parla nella proposizione. Come agg., precede sempre il nome e ha flessione regolare; come pron., al masch. sing. possiede, oltre la forma regolare questo, anche la forma, propria dell’uso letter. e di uno stile controllato, questi (v.). […]   quéllo agg. e pron. dimostr. [lat. eccu(m) ĭlle, accus. eccu(m) ĭllum]. – Indica in genere cosa o persona lontana nello spazio o nel tempo da chi parla e da chi ascolta, o che nel discorso è considerata come tale; si contrappone a questo […]. Come agg. precede sempre il nome e possiede al masch. due forme per il sing., quello e quel, e due per il plur., quegli (ant. quelli) e quei, per l’uso delle quali valgono le stesse norme che regolano l’uso delle forme maschili dell’art. determinato, adoperandosi quel come il, quello come lo, quei come i, quegli come gli: quel treno, quello spaccone e quello zingaro (ma quell’uomo), quei bicchieri, quegli uscieri; […]. È regolare l’uso del femm. quella, plur. quelle (quella famiglia, quell’opera, quelle strade, quelle entrate, preferito, oggi, a quell’entrate). Come pron. conserva quasi sempre la flessione regolare; solo al masch. sing. possono trovarsi, accanto alla forma d’uso com. quello, le forme letter. quegli e quei (per le quali v. le voci), e quello può inoltre subire troncamento quando è seguito dal pron. relativo che, spec. se ha valore neutro (per es.: faccio quel che mi pare).   In pratica, la grande differenza di uso è:   Questo: indica qualcosa vicino a chi parla nel momento in cui parla   Quello: indica qualcosa lontano da chi parla (e spesso, anche da chi ascolta)   Esempi: Questo tavolo è troppo basso, quello là troppo grande. Guarda quella ragazza laggiù: è mia cugina. Vuoi questo giornale? Finisco di leggere e te lo passo.   Un altro aspetto interessante da notare è la flessione di questi due aggettivi.   Questo è regolare, e presenta in aggiunta la forma questi, che si usa in contesti particolarmente formali ed elevati.   Quello, invece, può mutare forma a seconda della parola che segue, esattamente come succede per l’articolo determinativo maschile il/lo, i/gli. Quel segue le regole di il, quello di lo, quei di i e quegli di gli. (Se vuoi approfondire l’uso degli articoli determinativi, ti consiglio di rileggere QUESTO ARTICOLO.)   Infine, sappiamo che questo sistema bipartito questo/quello si replica allo stesso modo in altre lingue, come in inglese, francese e tedesco.   Ma da dove arriva e come si inserisce codesto?     CODESTO Eccoci giunti al famigerato codesto: vediamo di fare un po’ di chiarezza a riguardo. La Treccani lo presenta così:   codésto (o cotésto) agg. e pron. dimostr. [lat. eccu(m) tibi iste]. – Indica persona o cosa vicina a chi ascolta, o a lui relativa, o nominata subito prima. Come agg.: mi fai vedere c. foglio?; ti pentirai di c. parole; in lettere di carattere ufficiale, può indicare l’ufficio stesso, l’ente, la società a cui si rivolge il discorso: il sottoscritto fa domanda a c. Ministero; la fattura da noi rimessa a c. spett. Ditta. Come pron., solo con valore neutro: c. che tu dici non è vero; o sottintendendo un sost.: bella codesta! ◆ Fuori di Toscana è di uso raro o letter. (tranne che nella corrispondenza ufficiale e nell’uso burocr.), ed è per lo più sostituito da questo o da quello anche nell’uso scritto.   In sostanza, serve per indicare qualcosa di lontano da chi parla ma vicino a chi ascolta; ma al di fuori della Toscana, questo significato viene assunto da quello.   Se andiamo a risalire alle origini di questa parola, la troviamo saldamente affermata nel fiorentino, insieme alla variante cotesto. Manzoni stesso ne fece largo uso, e nei programmi scolastici volti a insegnare un italiano nazionale al posto dei vari dialetti codesto era presente, in quanto mutuato direttamente dal fiorentino, sul quale la nostra lingua venne modellata.   Ciò significa che codesto persistette a lungo nelle grammatiche, per poi andare via via perdendosi dal Novecento in poi.   Oggi, per la maggior parte dei parlanti

A meno che o almeno che?

Almeno, controlla! Almeno che tu non faccia attenzione… scriverai orrori del genere! (E se non vedi l’errore, BACCHETTATE triple.)   Non ci avevo mai pensato, non mi sarebbe mai venuto in mente. Eppure… è successo: stavo leggendo online un articolo di blog dedicato alla cura dei gatti (sì, in casa Penna Rossa sta per entrare un gattino, quindi in questo periodo sto studiando tutto lo studiabile) e mi sono trovata davanti questa frase:   “Almeno che il gatto non sia già abituato a…”   Lo senti? Lo VEDI quanto è insopportabile? E ho scoperto che è un errore diffusissimo!   Inutile dire che ho immediatamente chiuso la pagina, e che da quel sito non comprerò mai nulla.   Perché, per quanto mi riguarda come cliente, chi scrive in maniera errata e lasciando refusi in giro non sta mettendo abbastanza impegno nel suo lavoro, quindi non si merita minimamente i miei soldi. E per il mio futuro gattino voglio solo il meglio!   E non sono l’unica: di qualsiasi cosa si occupi la tua azienda, è così anche per i tuoi clienti.   Il modo in cui scrivi è il modo in cui ti presenti a loro, ed è su quello che si forma la loro prima impressione (che è difficilissima da cambiare): vuoi sembrare un esperto o un dilettante? E allora, CLICCA QUI e  iscriviti subito alla mia newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa, per imparare quali sono gli errori da evitare per scrivere bene i testi per la comunicazione della tua azienda!   E ora… andiamo a scoprire perché “a meno che” NON si scrive “almeno che”!     ALMENO L’errore non è una semplice svista come si potrebbe pensare, ma l’uso errato di una parola che ha un proprio significato ben preciso, e quindi una sua specifica funzione.   Ma se si ignora questo significato… ecco che nasce l’errore.   Partiamo come sempre dal dizionario:   alméno avv. – Se non di più, se non altro, a dir poco: concedimi a. questo; mostra a. buona volontà; vale a. mille euro. Col verbo al congiuntivo esprime desiderio di cosa che attenui o possa scongiurare un male: a. piovesse!; se a. mi avesse avvertito!   Premessa: una volta, esisteva anche la grafia al meno, ma è antiquata e non più in uso, quindi oggi sarebbe un errore ortografico.  Scrivi sempre e solo “almeno”.   Tornando al significato, come vedi almeno è un avverbio che significa “se non altro”, “come minimo”, che indica un minimo di qualcosa, che può essere una quantità o un requisito minimo, un’azione da eseguire.   Esempi: Voglio almeno due nuovi membri del team. Almeno, fai partire una lavatrice. Sii puntuale, almeno tu. Vale almeno 3.000 sterline. Finisci almeno di scrivere l’articolo per martedì!   E in realtà… in alcuni casi, possiamo anche usare il che dopo almeno, ma solo per esprimere il preciso significato che abbiamo appena visto:   Esempi: Vorrei almeno che tu mi ascoltassi. Spero almeno che tu abbia capito.   Come puoi notare, è facile identificare questi casi, perché si tratta sempre dell’espressione di un desiderio (sempre con l’accezione di “minimo accettabile”.   Perciò… quando invece NON VA USATO?     A MENO CHE Ed eccoci al secondo caso: una locuzione composta da tre parole (e già, partiamo col dire che sono sempre tre, non due, non una: tre elementi che ci devono sempre essere).   Per trovare delucidazioni sul dizionario, dobbiamo spulciare un po’ alla voce meno e scorrere tra i vari significati:   méno avv. e agg. [lat. mĭnus, neutro (con valore avverbiale) di minor, compar. di parvus «piccolo»]. […] 4. Locuzioni: […] f. A m. che, a m. di, salvo che, eccetto che si avveri una determinata condizione: non lo farò, a m. che non mi preghi (o a m. d’essere pregato); temo che tutto sia perduto, a m. che non s’intervenga immediatamente; dev’essere così, a m. che non me lo sia sognato; nessuno oserebbe tentarlo, a m. d’essere pazzo.   In pratica, a cosa serve?  Per presentare un’eccezione.   Che è ben diversa dal “requisito minimo” che abbiamo visto nel caso di almeno!   Vediamo degli esempi:   Domani, a meno che non piova, dovrò lavorare. A meno che non trovi uno sponsor, il progetto salterà. Non andrò, a meno che tu non decida di venire.   La cosa interessante da osservare è la costruzione della frase:    A meno che non può stare da solo, ha bisogno di una frase reggente.  Si costruisce con non (che in questo caso non nega, ma rafforza) + congiuntivo. Come vedi, il significato e il modo di costruire la frase sono completamente diversi da prima, e scambiarli non avrebbe alcun senso.     QUINDI… Almeno che NON è un sinonimo di a meno che, ma un errore: almeno e a meno che sono due espressioni diverse, con significati e usi diversi.   Almeno: con significato di “come minimo”, “se non altro”; indica un requisito minimo A meno che: “eccetto che”; indica un’eccezione   Quindi, occhio a non confonderli mai!   Vuoi potenziare ancora di più i testi della tua comunicazione, entrando a fondo e scavando nel dialogo mentale del tuo Cliente Su Misura, l’unico che non vede l’ora di comprare da te e riconosce il valore del tuo lavoro? Ti serve la tecnica della Scrittura Persuasiva! 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Il prefisso in- è sempre negativo?

Un prefisso, due serie di parole Perché si dice inutile per identificare una cosa non utile…  ma infiammabile NON indica una cosa che non si infiamma?   L’argomento per l’articolo di oggi viene da un commento che è arrivato qualche giorno fa sotto un vecchio articolo (quello dedicato a “Tavolo o tavola?” che trovi cliccando QUI).   Effettivamente, si tratta di una questione legittima e più interessante di quel che si possa pensare!   Il protagonista è il prefisso in-, una particella che troviamo all’inizio di molte parole italiane. Inutile, indifeso, inorganico, insano e via dicendo: le prime che ci vengono in mente, di solito, sono tutte parole in cui in– indica una negazione.   Tuttavia… se continuiamo a cercare, troviamo parole come infiammabile, ingelosirsi, incorporato e via dicendo.   Come vedi, in questi casi non c’è nessuna negazione: anzi, per quanto riguarda infiammabile, è proprio il contrario!   Significa che l’oggetto può prendere fuoco, non che è ignifugo!   Ti immagini il caos che si scatenerebbe se scambiassimo queste due parole? Una tragedia.   Ecco perché quando scriviamo dobbiamo sempre fare la massima attenzione alle parole che usiamo: non possiamo rischiare di creare confusione mandando un messaggio sbagliato. Specialmente se si tratta della comunicazione online della tua azienda!   Quindi, per prima cosa, se ancora non lo hai fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa, per capire quali sono gli errori da non fare mai scrivendo e come scrivere bene i testi per la tua azienda.   E ora… andiamo a scoprire perché la particella in– ha due significati diversi e quali sono!       IN-: “DENTRO”/AZIONE Da quale dei due significati partiamo?  Dal primo che troviamo sul vocabolario:   in-1 [lat. ĭn-]. – 1. Prefisso verbale di molte parole derivate dal latino o formate in epoca posteriore. Ha in genere funzione derivativa, serve cioè alla formazione di verbi tratti da aggettivi (arido – inaridire, tenero – intenerire), da sostantivi (fiamma – infiammare, catena – incatenare), o da altri verbi, nel qual caso la derivazione è per lo più avvenuta già in latino e il prefisso conserva il valore della prep. lat. in «dentro» (indurre, influire, infondere, ecc.), significato che può avere anche in alcuni derivati da sostantivi (incarcerare, inalveare, incassare, ingabbiare, ecc.).    L’origine di questo prefisso è dunque latina, dove significava “dentro”.   Ha una funzione ben precisa: serve per formare nuovi verbi parasintetici, combinandosi con un aggettivo o un sostantivo.   Questi verbi possono essere già presenti in latino, oppure essersi formati più di recente.   Inoltre, è da notare che il prefisso in-, in questo tipo di formazione di nuovi verbi, indica l’avvenire di un’azione:   Esempio: fiamma → infiammare (da cui deriva poi l’aggettivo infiammabile che abbiamo nominato all’inizio dell’articolo) geloso → ingelosirsi, agg. ingelosito   In secondo luogo, in- si può unire a un verbo e per dare origine a un altro verbo: in questo caso, in- conserva il suo significato originario di “dentro”. Anche in questo caso, la derivazione può essere già avvenuta in latino (ed è la maggioranza dei casi), oppure trattarsi di una formazione moderna.   Esempi: indurre (da in + ducere, “condurre in”) infondere (in + fondere)   Inoltre, esistono anche casi in cui il significato di dentro viene mantenuto in derivati originati da sostantivi + in:   Esempi: ingabbiare, incassare   Ma non finisce qui: a volte in– si camuffa!   Cosa significa? Che quando in– si unisce a parole che iniziano con determinate lettere muta.   Parole che iniziano con l, m, r: La n muta nella lettera che segue. Esempi: in + luminare: illuminare in + raggiare: irraggiare     Parole che iniziano con b, p: la n si trasforma in una m. Esempi: in + borghese: imborghesirsi in + palo: impalare   Parole che iniziano con s + consonante: la n può scomparire, oppure conservarsi. Esempi: in + struere (struere = costruire) → istruire in + strada → instradare   Ma quando invece in- assume significato di negazione?       IN-: MANCANZA Passiamo quindi al secondo significato, che sul dizionario ha una voce tutta sua:   in-2 [lat. ĭn-, corrispondente al gr. ἀ- privativo (v. a-2), ambedue da un originario *n̥-, forma alternante, a grado zero, della negazione ne]. – Prefisso negativo presente in molte parole derivate dal latino o formate in epoca posteriore, di solito aggettivi, o sostantivi derivati da questi (inabile – inabilità, inconsistente – inconsistenza). Si premette ad aggettivi (utile – inutile, visibile – invisibile), oppure a participî presenti o passati (coerente – incoerente, compreso – incompreso), talora a un tema verbale (inconsutile, lat. inconsutĭlis, comp. di in– e tema di consuĕre «cucire»), più raramente a sostantivi (incoloro, inodoro, insaporo, da colore, odore, sapore). Come nel prefisso precedente, davanti a parole che cominciano con l-, m-, r-, la n si assimila (illogico, immortale, irregolare), ma si può avere in antichi testi una grafia non assimilata (inlogico, inmobile, inragionevole); davanti a b– e p– si cambia in m (imbelle, impotente); non cade mai, invece, davanti a s + cons. (inscusabile, inscrutabile). Talora il prefisso esprime, più che semplice negazione, contrarietà, opposizione (infame, infelice, insano, immondo). In alcuni composti, infine, ha valore privativo (imberbe, implume, inerme, inerte, ecc.).   Quindi, ora abbiamo a che fare con un significato di mancanza, privazione, contrarietà od opposizione, perché di fatto è una parola a sé, con un’origine diversa rispetto all’in- visto nel paragrafo precedente.   Anche in questo caso, possiamo avere:   Parole derivate direttamente dal latino Esempio: inutile, insano   Parole formate in tempi più recenti Esempi: inorganico, inconsapevole   Il secondo elemento della parola può essere un aggettivo, un sostantivo, un participio presente o un participio passato: Esempi: inelegante, inesperienza, indifeso, incurante   E, indovina… anche qui a volte ci sono delle mutazioni della n, negli stessi casi e con le stesse modalità descritte prima.   Esempi: logico → illogico possibile → impossibile potente → impotente regolare → irregolare       QUINDI…

Imparare o insegnare?

Imparare e insegnare NON sono uguali! “Te lo imparo io!” Certo, e poi la Penna Rossa arriva e ti prende a BACCHETTATE. Molte bacchettate. Una marea di bacchettate!   Ora, io spero che tu non abbia mai scritto una cosa simile. Ma probabilmente, ti sarà capitato di vederlo scritto, e, spero di nuovo, di inorridire.   Perché qui non stiamo parlando di fissazione per le virgole (che sono comunque importanti) o di regole basate su convenzioni di utilizzo. Qui stiamo parlando di due verbi completamente diversi, con significati diversi: quindi, NON si possono usare uno al posto dell’altro.   Eppure, capita fin troppo spesso che imparare venga usato al posto di insegnare, in frasi (tutte errate) come:   La maestra mi ha imparato le tabelline. Gli ho imparato a legarsi le scarpe. Chi ti ha imparato a parlare così? Gli ho imparato tutto quello che sa.   E via dicendo (che dolore agli occhi nello scrivere queste cose).   Ma perché questo errore viene fatto?   Probabilmente, perché i due verbi sono semanticamente connessi, poiché tutti e due rientrano nell’ambito della conoscenza e dell’apprendimento.   Ma non è una scusa, quindi non ci provare: non devi MAI, mai e poi mai commettere questo errore, specialmente nei testi della comunicazione online della tua azienda… a meno che non tu non voglia far scappare clienti. In questo caso, puoi anche smettere di leggere e dare il peggio di te. Ma se non è così… continua a seguirmi, e iscriviti alla newsletter CLICCANDO QUI per non perderti nemmeno un articolo della Penna Rossa!   E ora… andiamo a scoprire nel dettaglio da dove nasce questo errore e perché va assolutamente evitato!         DUE VERBI DIVERSI Imparare è un verbo della prima coniugazione, transitivo e deriva dal latino in + parare, ovvero “procurare, acquistare”.   La Treccani lo presenta così:   Imparare: v. tr. [lat. *imparare, comp. di in-1 e parare «procurare»; propr. «procacciarsi una nozione», o sim.]. – 1. a. Acquistare cognizione di qualche cosa, o fare propria una serie di cognizioni (relative a un’arte, a una scienza, a un’attività, ecc.), per mezzo dello studio, dell’esercizio, dell’osservazione, della pratica, attraverso l’esempio altrui, ecc. […] 2. region. Venire a sapere, avere notizia di qualche cosa: domani ci sarà uno sciopero, l’ho imparato or ora. 3. Nell’uso pop. (erroneo ma largamente diffuso), insegnare: tutto quel che sa gliel’ho imparato io; chi ti ha imparato a rispondere così?; o fare apprendere (con questo senso, anche letter., dando al verbo un valore causativo): E dolce un canto le imparava (Carducci).   Come vedi, anche la Treccani rileva l’uso errato di questo verbo al posto di insegnare! Ma facciamo un passo indietro.   Abbiamo detto che imparare è un verbo TRANSITIVO, perciò richiede l’oggetto diretto della cosa che si impara e anche la specifica della cosa/persona da cui si impara, tramite un complemento d’origine; inoltre, è possibile la costruzione imparare a + infinito. Esempio: Alessandro impara la retorica da Aristotele. Simba impara a regnare da Mufasa. Sinonimi: apprendere   Per quanto riguarda insegnare, abbiamo sempre a che fare con un verbo transitivo della prima coniugazione, ma dal significato diverso:   Insegnare: v. tr. [lat. *insĭgnare, propr. «imprimere segni (nella mente)», der. di signum «segno», col pref. in-1] (io inségno, … noi insegniamo, voi insegnate, e nel cong. insegniamo, insegniate). – 1. a. In genere, far sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione, o apprenda il modo di fare un lavoro, di esercitare un’attività, di far funzionare un meccanismo, ecc. Costruito con compl. oggetto (della materia o delle cose insegnate): i. le verità della fede; i. un gioco […] 2. a. Comunicare il sapere, guidare nell’apprendimento di una disciplina, di un’arte, di una scienza, o di parti di esse, esponendone metodicamente gli elementi, i principî, le regole, e giovandosi dei vari sussidî didattici: i. a leggere, a scrivere […] b. Usato assol., dare lezioni in una scuola oppure privatamente, esercitare la professione d’insegnante: i. al liceo […]   Anche in questo caso, il verbo richiede l’oggetto diretto della cosa insegnata; a differenza di imparare, in questo caso è necessario anche l’oggetto indiretto della persona a cui si insegna; inoltre, è possibile la costruzione insegnare a + infinito. Esempio: Aristotele insegna retorica ad Alessandro. Mufasa insegna a regnare a Simba. Sinonimi: istruire, addestrare   In pratica, questi due verbi identificano due ruoli nel campo della conoscenza:   Imparare: ricevere e assimilare conoscenza; lo fa lo studente Insegnare: trasmettere conoscenza; lo fa l’insegnante   Tutto molto chiaro, vero? E allora perché gli errori abbondano a tal punto che i dizionari segnalano e mettono in guardia dall’usare imparare al posto di insegnare?       DA DOVE NASCE L’ERRORE Come abbiamo visto, i dizionari rilevano l’errore di imparare usato al posto di insegnare, ovvero riferito a chi insegna e non a chi apprende, e lo segnalano come uso regionale particolarmente diffuso in Italia centro-meridionale.   Ovviamente, lo sconsigliano fortemente, poiché si tratta di un errore.   Ma da dove nasce?   Innanzitutto, troviamo questo uso oggi errato anche in testi letterari antichi, a partire dal secolo XVI, come ad esempio nelle Lettere di Aretino, ma anche in Carducci e Buzzati (anche se, specialmente in quest’ultimo caso, è una scelta voluta per imitare la parlata popolare).   In ogni caso, è fuor di dubbio che in italiano imparare e insegnare sono due azioni diverse e distinte, ma è sempre stato così nella storia?   Greco: verbo didasko, significa “far imparare”, quindi “insegnare”; ma se usato alla diatesi passiva prende il significato di “imparare”. Tuttavia, in greco esisteva anche il verbo manthano, con lo specifico significato di imparare.   Latino: verbo doceo, significa “insegnare”, ma se usato al passivo prende il significato di “imparare”. Tuttavia, esisteva anche il verbo disco, con lo specifico significato di imparare.   Osservando le lingue moderne, scopriamo che:   Lingue germaniche: due verbi distinti Esempio: inglese:

Tavolo o tavola?

Cambi di genere Si dice tavolo o tavola? Entrambi, e fin qui siamo tutti d’accordo.   Ma quando va usata la forma maschile e quando quella femminile?   Scommetto che non te lo sei mai chiesto con particolare attenzione, eppure, se ora ti fermi a pensarci un attimo… scopri che queste due forme si alternano di continuo.   Tavolo da gioco Tavola da surf Tavola di legno Tavolo di marmo Pronto in tavola! Il tavolo della cucina   E via dicendo.   Ovviamente, scambiare le due forme sarebbe un errore: guai a te se provi a scrivere tavolo da surf o pronto in tavolo!   Senti come suona ridicolo?   E se si tratta di un testo per la comunicazione online della tua azienda è ancora peggio: scommetto che non vuoi sembrare ridicolo agli occhi dei tuoi clienti… perciò, non perderti mai un articolo della Penna Rossa, se vuoi scoprire gli errori da evitare: CLICCA QUI e iscriviti subito alla newsletter, se ancora non l’hai fatto!   Il fenomeno che analizziamo oggi è un’alternanza di genere, e si verifica per parole che indicano cose inanimate (quindi, non dotate di genere proprio) e nella nostra lingua è abbastanza frequente.    Ci sono delle regole? Sì, ma non proprio sempre. Sono opzionali? Certo che no.   Ecco perché oggi ci concentriamo in particolare a capire come funziona l’alternanza tra tavolo e tavola: sei pronto?       TAVOLA Credo che tutti i parlanti italiani, leggendo la parola tavola, sappiano esattamente di cosa si tratta.   Tuttavia… partiamo lo stesso con il consultare la Treccani: è un’ottima abitudine da avere quando si scrive, perché può sempre insegnare qualcosa di utile.   tàvola s. f. [lat. tabŭla]. – 1. Asse di legno di spessore sensibilmente minore della lunghezza e della larghezza: segare, piallare una t.[…] 2. a. Mobile costituito da un piano orizzontale di forma e materiali varî […], sorretto, all’altezza di circa 70-80 cm, da uno o più elementi verticali (piedi o gambe) o con altri mezzi di sostegno (t. fissa da parete, t. estraibile), usato per mangiare, per eseguire determinati lavori e svolgere determinate attività, standovi seduti ai lati e tenendovi sopra quanto occorre per i varî usi: t. da pranzo o per mangiare; […] b. Con uso assol., senz’altra determinazione, indica la tavola attorno alla quale ci si siede per consumare i pasti (in questo sign. e negli usi qui di seguito riportati, non si userebbe tavolo): apparecchiare, sparecchiare la t.; portare, servire (le vivande e le bevande) in t., e il pranzo è in t., […] T. calda e t. fredda, assortimento di cibi e piatti caldi o freddi che si consumano, quando si vuole pranzare rapidamente e in forma semplice, in locali pubblici (rosticcerie, bar e ristoranti, spec. di stazioni, aeroporti, impianti varî), in piedi o al banco seduti su alti sgabelli o anche a un tavolo: […] T. rotonda (dal fr. ant. roonde table), espressione che appare per la prima volta nel poema fr. Brut o Geste des Bretons (1155 circa), e che nel mondo fantastico della poesia cavalleresca medievale, spec. francese, indica il complesso dei cavalieri che circondavano il re Artù, leggendario sovrano dei Bretoni: attorno a una tavola rotonda si disponevano tali cavalieri quando il re li adunava a corte, e la forma circolare simboleggiava la loro perfetta uguaglianza nell’ideale cavalleresco […] 3. Oggetto, arnese o attrezzo, elemento di macchine e strutture varie, costituito essenzialmente da un piano, per lo più rettangolare e di limitato spessore, di legno o di altro materiale: t. da lavare o da bucato, t. da stiro, [… ]4. fig. a. Illustrazione, cartina o grafico, o altra riproduzione a stampa, che occupa un’intera pagina di un volume […]   Ti sembra un lemma lungo e corposo? Sappi che l’ho tagliato moltissimo: se vai a vedere l’originale è tre volte più lungo.   Ma siccome ora non ci serve saperlo, ti risparmio tutti i dettagli su tavola e i suoi usi più particolari, come in geografia, trigonometria, chimica e storia.     Perché tutti questi usi?   Perché si tratta di una parola molto antica e versatile: deriva direttamente dal latino tabula (riconducibile alla radice ta che significa “sostegno, cosa stabile”). In origine, però, significava principalmente soltanto asse, dipinto su legno o tavoletta votiva o tavoletta per scrivere.   Per indicare il tavolo su cui si mangia, in latino si usava infatti il termine mensa.     Cosa è successo?   Nei secoli, i due termini si sono in qualche modo avvicinati e sovrapposti, e già nell’italiano delle origini nel XII secolo tavola aveva preso entrambi i significati.   In pratica, in latino tabula significava asse, e mensa aveva i significati che noi oggi diamo a tavola; ma in italiano, la parola tavola ha preso entrambi i significati.     Perciò… oggi usiamo tavola nella sua forma femminile per indicare:   asse di legno la tavola intorno alla quale ci si siede per consumare i pasti grafici o illustrazioni attrezzi o strumenti particolari (come tavola da surf)   E per quanto riguarda il tavolo?         TAVOLO Anche qui, vediamo cosa ha da dire la Treccani:   tàvolo s. m. [der. di tavola]. – 1. Forma ormai più com. e spesso esclusiva, soprattutto fuori di Toscana, per tavola nel sign. di «mobile» (ma tavola è esclusivo per la tavola da pranzo, fuorché in usi generici come un prezioso t. del Cinquecento, comprare un t. nuovo per il tinello, e in relazione a ristoranti e trattorie in frasi come prenotare un t. per otto al ristorante, e sim.): t. di o da cucina; t. da lavoro, da stiro; t. operatorio; […]  t. da gioco o anche t. verde, per giochi di carte e altri giochi d’azzardo ([…] ma soltanto tavola nelle espressioni mettere le carte in tavola e tavola reale) […]. 2. Sign. e usi tecn. particolari: a. T. da disegno, […]. b. Tavolo di comando, o di manovra […] 3. Con uso fig., nel linguaggio politico e giornalistico, il termine,