Duemilaventidue o venti ventidue?

Mode linguistiche e inglesismi Se ti chiedo in che anno siamo, cosa rispondi? Nel duemilaventidue… o nel venti ventidue? Qualche giorno fa ho iniziato a cercare la mia nuova agenda per il 2023: dovevo pianificare una scadenza per aprile e mi sono resa conto che la mia attuale agenda finisce a dicembre. Posso forse vivere senza programmare tutto il programmabile con più anticipo possibile? Ovviamente no! Da brava Penna Rossa, precisione e programmazione sono per me sacre: che sia programmare ogni singolo pasto della settimana prima di andare a fare la spesa o le consegne di progetti, non riuscirei a vivere senza. Ed è stato proprio durante questa ricerca della mia prossima agenda (che ovviamente deve avere delle caratteristiche molto ben precise), che ho trovato qualcosa di interessante: “Scopri la nuova agenda venti ventitré!” Avevi mai letto 2023 scritto in quel modo? La domanda sorge spontanea: da dove deriva… ma soprattutto, è corretto? Non vorrei mai che tu stessi preparando un meraviglioso evento nella tua azienda per festeggiare il capodanno e ti ritrovassi a scrivere l’anno venturo in modo errato! Perché, ricorda, i testi per la comunicazione online della tua azienda sono il primo biglietto da visita con cui ti presenti ai clienti: se sono pieni di errori, sembrerai un incompetente, e loro andranno da un’altra parte. (Ecco perché, se ancora non l’hai fatto, ti consiglio di CLICCARE QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa.) E ora… andiamo a scoprire come si scrivono gli anni! COME SI SCRIVONO GLI ANNI Spesso abbiamo a che fare con i numeri quando scriviamo e le opzioni sono due: scriverli in cifre, oppure in lettere. Ovviamente, ci sono delle regole: ne abbiamo parlato approfonditamente in QUESTO ARTICOLO. Oggi ci concentriamo soltanto su come si scrivono gli anni! In lettere Decenni e secoli Attenzione, perché in questo caso la maiuscola è obbligatoria. Esempi: I ruggenti anni Venti. Il Settecento fu un secolo di trasformazioni. Date storiche importanti Attenzione: anche in questo caso è obbligatoria l’iniziale maiuscola. Esempi: Il Primo Maggio è la festa dei lavoratori. Chi non conosce le rivoluzioni del Sessantotto? In cifre Date precise Sia giorno che anno vengono scritti in cifre, mentre il mese si scrive in lettere. Attenzione: i nomi dei mesi vanno scritti con l’iniziale minuscola! Eccezione: il primo giorno del mese di solito si scrive in lettere con il numero ordinale. Esempi: Sono nata il 10 gennaio 1989. Il primo gennaio inizia l’anno nuovo. Questa azienda fu fondata nel 1964. Il 25 aprile è festa. Attenzione: quando scriviamo in cifre gli anni, non dobbiamo mai inserire il punto come separatore delle migliaia (che si usa solo per i numeri dal 10.000 in poi; quindi, parlando di anni non ne avrai mai bisogno). Numeri romani Non dimentichiamo i numeri romani, che possiamo usare ancora oggi quando parliamo di secoli. Esempi: Oggi siamo nel XXI secolo. Stando a ciò che abbiamo appena detto, quando parliamo dell’anno in cui ci troviamo, di norma dovremmo scriverlo in cifre. E allora… da dove nasce la questione “venti ventidue”? VENTI VENTIDUE Abbiamo appena detto che normalmente gli anni vanno scritti in cifre, ma può capitare che tu decida di scriverlo in lettere: magari per creare una grafica accattivante, un volantino, un poster e via dicendo. Ed ecco che 2022 diventa duemilaventidue (con la lettera minuscola, di norma). Ma, se cerchiamo un po’ su Google (o magari ti ricordi dell’episodio!) scopriamo che, durante il festival di Sanremo di quest’anno, Amadeus si è servito della formula “Sanremo venti ventidue” mentre presentava la classifica finale. Allargando le ricerche, scopriamo che è poi stato ripreso dai giornali, che hanno usato grafie come VentiVentidue e venti-ventidue. Ma perché? Da dove deriva questa formula? Le motivazioni sono due: Economia linguistica Venti ventidue rispetto a duemilaventidue risparmia due sillabe nel parlato e due lettere nello scritto: non molto, in effetti, ma la lingua tende a risparmiare. Calco dall’inglese La vera e principale ragione però è il calco dell’inglese! In inglese, infatti, 2022 si legge twenty twenty-two, perché i nomi degli anni vengono spezzati in due blocchi e letti in questa maniera. La diffusione di questo modo di dire inizia a partire dal 2020 (complici anche dei meme diffusi online, come ad esempio twenty twenty too quasi a dire che il 2022 fosse una ripetizione del tremendo 2020, anno iniziale della pandemia). Cercando ancora più a fondo, scopriamo che qualche giornale aveva già usato saltuariamente formule come venti diciassette e venti sedici. Un’altra osservazione interessante è la tendenza a eliminare del tutto le prime due cifre, che non è certo estranea alla nostra lingua (e va sempre nella direzione dell’economizzare). Pensa ad esempio a espressioni come il Sessantotto o il Ventidue (per intendere il 1968 e il 1922); ma di fatto, è ancora troppo presto per poter parlare di Ventidue intendendo solo il 2022 e dimenticandosi del 1922. QUINDI… Come è meglio scrivere l’anno in cui ci troviamo? Seguendo la norma, è meglio in cifre. Ma se hai delle ragioni pratiche per doverlo scrivere in lettere (come ad esempio voler preparare una grafica particolare), ti trovi di fronte a entrambe le opzioni: duemilaventidue o venti ventidue. Sicuramente, la prima è più corretta dal punto di vista del nostro sistema linguistico. Perciò, pensa bene al tuo target, al tuo Cliente Su Misura, e chiediti come lo scriverebbe lui: in questo modo, sarai sicuro di scrivere un testo che colpisce dritto il suo obiettivo! Ora tocca a te! Vuoi potenziare ancora di più i testi della tua comunicazione, andando dritto a infilarti nel dialogo mentale del tuo Cliente Su Misura, l’unico che non vede l’ora di comprare da te e riconosce il valore del tuo lavoro? Ti serve la tecnica della Scrittura Persuasiva!
Il plurale dei nomi in -co e -go

Al plurale ci vuole l’h? Perché fico diventa fichi, ma amico diventa amici? E naufraghi e naufragi sono la stessa cosa? E cosa dire di archeologi, archeologhe e monologhi? Oggi parliamo del plurale delle parole che terminano in -co e -go, perché, come vedi guardando questi esempi, non è così semplice ed è normale chiedersi se esista una regola. Sono sicura che non diresti mai “amichi” al posto di amici, ma, secondo me, se ti trovi davanti la parola chirurgo, e vuoi declinarla al plurale, qualche dubbio ti viene. L’h ci vuole o non ci vuole? La risposta è… dipende (ovviamente). E la regola che scopriamo oggi non è così scontata come potrebbe sembrare, perché ci addentriamo in una selva di casi diversi. Per non perderti lì in mezzo, devi sapere cos’è un nome sdrucciolo e stare attento alle eccezioni! Certo, non sei obbligato, puoi sempre scrivere a caso e fregartene degli errori. Ma, se si tratta dei testi per la comunicazione della tua azienda, io fossi in te non lo farei, perché i tuoi clienti se ne accorgono eccome degli errori… e se ne vanno da un’altra parte, da qualcuno di più competente. Perciò, se ancora non l’hai fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa, per scoprire come scrivere bene e quali sono gli errori da non fare quando scrivi! E ora… andiamo a scoprire come si forma il plurale dei nome in -go e -co! ATTENTO ALL’ACCENTO! La prima cosa che salta all’occhio quando osserviamo il plurale di queste parole è che ci sono moltissime oscillazioni. Non solo: non c’è una vera e propria regola ferrea capace di regolamentarle, ma ci si affida per lo più a delle regole basate sull’utilizzo… le quali ovviamente presentano parecchie eccezioni. Ma andiamo con ordine. L’Accademia della Crusca ha rilevato l’esistenza di una norma empirica basata sulla statistica (ovvero, la maggior parte delle volte funziona così) basata sulla posizione dell’accento delle parole: I nomi piani (con l’accento sulla penultima sillaba) al plurale vogliono -chi/-ghi (ovvero, mantengono la consonante velare). Esempi: albErgo/alberghi; fUngo/funghi I nomi sdruccioli (con l’accento sulla terzultima sillaba) al plurale vogliono -ci/-gi (ovvero, mutano la consonante in palatale). Esempi: mEdico/medici; psicOlogo/psicologi Sarebbe tutto molto bello e lineare… se non ci fossero le eccezioni; ma prima di passare a quelle possiamo individuare un’altra norma empirica, facile da ricordare. Premessa: i nomi in –logo e –fago spesso presentano un doppio plurale, come ad esempio antropofago → antropofagi/antropofaghi. Tuttavia, quando si tratta di nomi che si riferiscono a persone e non cose, è sempre consigliabile il plurale in –gi, poiché la forma –ghi è tipica dei registri più bassi e poco sorvegliati. Esempi: Psicologo → psicologi (e non psicologhi) Teologo → teologi (e non teologhi) Se invece abbiamo a che fare con aggettivi o nomi riferiti a cose, il plurale più frequente è –faghi, –loghi. Esempi: Catalogo → cataloghi analogo → analoghi Ma quali sono le eccezioni che possono trarci in inganno? ECCEZIONI E CASI PARTICOLARI Come abbiamo più volte anticipato, le eccezioni in questo caso abbondano. Vediamo le più comuni: Amico → amici Greco → greci Porco → porci (In questo caso, è interessante notare la variante colloquiale “porchi” che si sta diffondendo recentemente, usata con il significato di “improperi”) Sarcofago → sarcofagi (anche se sarcofaghi non è propriamente errore, è soltanto meno comune) Esofago → esofagi (anche se esofaghi non è propriamente errore, è soltanto meno comune) Asparago → asparagi Pizzico → pizzichi Ricarico → ricarichi Scarico → scarichi E il femminile come si comporta? Qui siamo fortunati: il plurale di aggettivi e nomi in -ca e -ga si forma sempre con -che e -ghe! Esempi: musica → musiche amica → amiche psicologa → psicologhe QUINDI… Cosa dobbiamo tenere a mente per non sbagliare la formazione del plurale di nomi e aggettivi in -co e -go? I nomi piani (con l’accento sulla penultima sillaba) al plurale vogliono -chi/-ghi I nomi sdruccioli (con l’accento sulla terzultima sillaba) al plurale vogliono -ci/-gi I nomi in –logo e –fago vogliono -logi e fagi quando si riferiscono a persone, ma -loghi e faghi quando sono aggettivi o nomi riferiti a cose. Se sei in dubbio, non esitare e consulta un dizionario! Ora tocca a te! Vuoi potenziare ancora di più i testi della tua comunicazione, trasformandoli in delle vere macchine sforna-soldi? Ti serve la tecnica della Scrittura Persuasiva! Il Modellista Umberto Masiello ha appena il suo primo libro: TRASFORMA LE TUE PAROLE IN SOLDI La Scrittura Persuasiva che alza il tuo fatturato Sei pronto a imparare le tecniche per scrivere dei testi che entrino nella mente dei tuoi Clienti Su Misura… portando alla tua azienda il fatturato che hai sempre sognato? Clicca qui per acquistare subito la tua copia! E per scoprire altri errori da NON fare… … ci vediamo lunedì prossimo! La Penna Rossa BIBLIOGRAFIA BARATTER P., Il punto e virgola. Storia e usi di un segno, Carocci, Roma 2018. BECCARIA G.L., Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Einaudi, Torino 2004. BERRUTO G., Corso elementare di linguistica generale, UTET, Torino 2012. CARRADA L., Paroline & Paroloni; Zanichelli, Bologna 2018. CANNAVACCIUOLO A., Manuale di copywriting e scrittura per il web, Hoepli, Milano 2019. CERRUTI M., CINI M., Introduzione elementare alla scrittura accademica, Laterza, Roma-Bari 2010. D’ACHILLE P., L’italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2006. DEL BONO G., La bibliografia, Carocci, Roma 2000. DELLA VALLE V., PATOTA G., Piuttosto che: cose da non dire, cose da non fare, Sperling&Kupfer, Milano 2013. FANCIULLO F., Introduzione alla linguistica storica, Il Mulino, Bologna 2007. EDIGEO (a cura di), Manuale di redazione, Editrice Bibliografica, Milano 2013. GHENO, V., Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi), Franco Cesati Editore, Firenze 2016. GIUNTA, C., Come non scrivere, Utet, Milano 2018. MARTINUCCI A., Guida alla
I nomi stranieri vanno italianizzati?

Un lungo fenomeno linguistico Perché chiamiamo la regina Elisabetta con il suo nome italianizzato… ma per suo figlio il principe William manteniamo il nome inglese? E non solo. Questo fenomeno si osserva anche per i toponimi: abbiamo Parigi e Londra, ma anche New York e Aberdeen; e ancora Città del Messico e Montréal. Per non parlare poi dei libri di scuola che ci hanno parlato per anni di Cartesio, Francesco Bacone e Anna Bolena, e di Friedrich Nietzsche, William Shakespeare e Gustave Flaubert. Come vedi, che si tratti di nomi propri o toponimi, ci sono due opzioni per scriverli (e pronunciarli): forma originale italianizzazione E qual è la regola per capire cosa tradurre e come tradurlo, o se limitarsi ad adattarlo graficamente e come? Ho una brutta notizia per te. Non c’è una regola codificata. Ma aspetta ad esultare: il fatto che non ci sia una regola precisa, non vuol dire che tu sia al riparo dagli errori. Perché ci sono delle consuetudini molto radicate, e non seguirle sarebbe un errore! Scriveresti forse “Quest’estate sono andato a London e ho visto il Ponte della Torre?” Spero di no, o vengo a cercarti a casa con le bacchettate. Quindi, non puoi permetterti di essere superficiale su questo argomento quando scrivi i testi per la comunicazione della tua azienda: le persone sono molto più sensibili alle consuetudini d’uso che alle regole, perciò non riusciresti mai a vendere a un italiano una tazza con l’effigie del principe Guglielmo o di re Charles. Non capirebbe a chi ti riferisci. E passerebbe oltre! Perciò, se ancora non l’hai fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa, per scoprire tutti gli errori da non fare quando scrivi. E ora… andiamo a scoprire quando e come italianizzare nomi propri e toponimi stranieri! NOMI DI LUOGHI Che si tratti di nomi di persone o di luoghi, l’integrazione di nomi stranieri nella propria lingua è un fenomeno che si verifica in tutte le lingue e che si verifica ogni volta in cui popoli diversi vengono a contatto. Le modalità in cui questo fenomeno avviene possono però essere molto diverse. Partiamo con i nomi dei luoghi! In generale, in passato, la tendenza più naturale è sempre stata quella di adattare il più possibile i nomi stranieri all’italiano, sia per grafia che per pronuncia, per farli rientrare nel nostro sistema fonetico e ortografico. Tuttavia, le vie per farlo sono più d’una: ci possono essere sviluppi italiani da forme latine (come Acquisgrana, da Aquae Grani); altri che mantengono la loro forma originale (come New York), altri che sono stati adattati alla morfologia dell’italiano (come San Pietroburgo) oppure altri che non sono forme pienamente italianizzate ma nemmeno originali (come Copenhagen). La regola principale è quella della consuetudine d’uso. In sostanza, se un toponimo straniero è familiare da lungo tempo nella storia ai parlanti italiani, la forma sarà sicuramente italianizzata; la tendenza a mantenere la forma originale è molto recente. Andiamo a vedere nello specifico i vari casi. Nomi di paesi e regioni Mediati dal francese o dall’inglese Francia e Inghilterra, in quanto potenze coloniali, hanno avuto relazioni prima dell’Italia anche con paesi più lontani: per questo, molti toponimi sono entrati in italiano attraverso queste due lingue e non dall’originale. Esempi: Afghanistan (fr. Afghânistân, ingl. Afghanistan) Botswana (fr./ingl. Botswana) Ciad (fr. Tchad, ingl. Chad) Cambogia (fr. Cambodge, ingl. Cambodia) Tradotti A volte, abbiamo una vera e propria traduzione, specialmente quando si tratta di appellativi composti da più parole. Esempi: Stati Uniti d’America Regno Unito Nuova Zelanda Dal latino Se invece si tratta di paesi facenti parte della cultura europea già dalle origini, lo sviluppo delle parole parte dalla denominazione latina e si evolve direttamente in italiano. Esempi: Egitto da Aegyptus Scozia da Scotia Spagna da Hispania Forma originale Il terzo caso racchiude i nomi di paesi più recenti, per i quali si tende a mantenere la forma originale (oppure a creare minimi adattamenti quando le forme originali presentano grafemi o fonemi estranei all’italiano) Esempi: Argentina, Bolivia, Uruguay, Cile (anziché Chile), Messico (anziché México) Nomi di città Il discorso in generale è abbastanza analogo ai nomi di paesi e regioni. Integrati in italiano dal nome originale Quando si tratta di nomi di città conosciuti da lungo tempo. Esempi: Avignone (Avignon); Parigi (Paris); Barcellona (Barcelona); Leida (Leiden); Francoforte (Frankfurt); Vienna (Wien) Mediati da una terza lingua Esempi: Bucarest dal fr. Bucarest (in rom. Bucuresti), Cracovia dal fr. Cracovie (in polacco Krakow) Dalla forma latina Esempi: Aquisgrana (lat. Aquae Grani) per Aachen, Augusta (lat. Augusta [Vindelicorum]) per Augsburg, Colonia (lat. Colonia [Agrippina]) per Köln Forma originale (con frequenti adattamenti della pronuncia) Esempi: Bonn, Dortmund, Essen, Chicago, Washington NOMI PROPRI DI PERSONA Per quanto riguarda i nomi di persona, il criterio principale rimane sempre lo stesso: da quanto tempo un dato nome è entrato nella lingua italiana. Più questo tempo è lungo, più è probabile che il nome sia stato italianizzato. Nomi di origine antica e biblica Entrati in italiano attraverso il latino, hanno tutti la loro forma italianizzata. Esempi: Adriano (Hadrianus), Socrate (Socrates), Cesare (Kaesar), Cartesio (Cartesius), Erasmo (Erasmus) Nomi più moderni In origine, anche questi venivano italianizzati: pensa a Francesco Bacone (Francis Bacon), Giovanna d’Arco (Jeanne d’Arc), Abramo Lincoln (Abraham Lincoln), Leone Tolstoj (Lev Tolstoj) e via dicendo. Tuttavia, oggi si tende a mantenere le forme originali: ecco perché chiamiamo re Carlo in questo modo (siamo abituati a chiamarlo così ormai da 70 anni), ma suo figlio principe William e non Guglielmo. L’unico adattamento che continua a essere fatto è quello grafico, quando siamo in presenza di grafemi non contemplati nel nostro sistema linguistico (come ad esempio i nomi russi o orientali in generale). Un ultimo appunto interessante a riguardo dei nomi italianizzati riguarda il ventennio fascista: in quegli
Come si scrivono i latinismi?

Attento alle trappole! “Aut aut” è un’espressione latina, e non inglese! Eppure, troppe volte si vede scritta erroneamente come “out out”, perché chi la scrive ignora la sua origine e, basandosi sulla pronuncia, dà per scontato che sia un’espressione inglese. Peccato che… sia un ERRORE da Penna Rossa! Quante volte succede, che nel tentativo di distinguersi e mettersi in mostra le persone usano parole “che hanno sentito dire” ma che non conoscono… e le storpiano, finendo per ottenere l’effetto contrario e qualificarsi come superficiali e ignoranti? Pensa ad esempio al caso di curriculum: ne abbiamo parlato in QUESTO ARTICOLO. Il suo plurale corretto è curriculum, eppure… pletore di “curricula” infestano social, siti web e giornali. Terribile. Eppure, l’italiano è PIENO di latinismi di uso comune: Gian Luigi Beccaria, eccellente italianista, si era divertito a scrivere in uno dei suoi libri 5 pagine (che avevano perfettamente senso) riempiendole di ben 175 latinismi diffusi nell’italiano corrente. Ciò significa che non puoi scampare: capiterà anche a te di usare un latinismo ogni tanto. E quindi… devi sapere come scriverli, se vuoi che i testi per la comunicazione della tua azienda siano a prova di errore! (Motivo per cui esiste questa rubrica: se ancora non l’hai fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa, per scoprire tutti gli errori da non fare quando scrivi!) E ora… sei pronto ad addentrarti nella giungla dei latinismi? FORESTIERISMI PARTICOLARI Di fatto, i latinismi sono a pieno titolo dei forestierismi, ovvero parole di un’altra lingua che vengono usate in italiano così come sono. (Abbiamo già parlato dei forestierismi in QUESTO ARTICOLO.) Però… si tratta per noi di forestierismi molto particolari, poiché il latino (quello volgare, non quello “classico”) è la lingua dalla quale l’italiano deriva. Questo significa che la maggioranza del lessico italiano deriva dal latino. Tuttavia, ci sono due distinte linee di entrata: Parole che si sono “trasformate” e attraverso un lungo processo di evoluzione della lingua sono diventate parole italiane giungendo fino ad oggi Esempi: taverna (da taberna), colloquio (da colloquium) Parole di tradizione colta o comunque “interrotta”, ovvero che sono entrate in italiano solo molto più tardi, venendo riprese nella loro forma originale Esempi: honoris causa, curriculum vitae Come vedi, nel primo gruppo rientrano parole di uso quotidiano, che costituiscono il lessico base della nostra lingua. Il secondo gruppo invece riserva qualche sorpresa in più. Innanzitutto, queste parole molto spesse sono rientrate in italiano come parole tecnico-specialistiche: le scienze hanno attinto molto da questo serbatoio. Ma non solo! In questo gruppo rientrano anche quelle parole latine che sono entrate in italiano… ma passando tramite altre lingue, come l’inglese (è il caso di mass media) o il tedesco (come ad esempio album). Inoltre, dobbiamo tener conto di due fenomeni molto diffusi dell’ultimo secolo: l’enorme diffusione dell’inglese, e la perdita di familiarità con il latino che viene studiato sempre meno. Ecco perché qui si annida il rischio di errori: perciò dobbiamo fare estrema attenzione alla grafia, alla pronuncia e alla formazione del plurale di questi latinismi, con la consapevolezza che sono tali e non anglicismi. Ma quali sono i più diffusi? I PIÙ DIFFUSI Ad hoc: Significa “per questo”. Serve per indicare che qualcosa o qualcuno è perfettamente adatto allo scopo. ATTENZIONE: non si scrive mai e poi mai a doc o brutture simili Ad honorem: Significa “a onore”. Si usa a proposito di cariche, titoli o funzioni concessi a una persona solo a fine onorario, come riconoscimenti per meriti speciali. ATTENZIONE: occhio sempre alla -d e all’h! Aut aut: Significa “o o”, e viene usata per porre a qualcuno un’alternativa netta. Dare un aut aut significa dare a qualcuno un ultimatum (ecco che spunta un altro latinismo!), obbligandolo a compiere una scelta. ATTENZIONE: che non ti venga in mente di scrivere “out out”! Bonus: Il significato originario era “buono” (aggettivo); oggi indica uno sconto. ATTENZIONE: il plurale rimane invariato, poiché si tratta ormai di parola di uso comune. Ex aequo: Significa “alla pari, con uguale merito”; si usa in particolare per indicare concorrenti di gare classificatisi a pari merito. ATTENZIONE: non si scrive “ex equo”, ma è importante ricordare la ae- iniziale. Forum: Entra in italiano passando per l’inglese, con il significato di “dibattito pubblico”, per poi estendersi a “luogo di discussione online”. ATTENZIONE: il plurale rimane invariato, poiché si tratta ormai di parola di uso comune. In flagrante: tipico del linguaggio giuridico, letteralmente significa “mentre sta bruciando”. Significa cogliere qualcuno nel momento in cui sta commettendo un reato. ATTENZIONE: la grafia giusta è questa; ho visto purtroppo scrivere “in fragrante” ma è sbagliatissimo. Referendum: in latino, letteralmente significa “per riferire”. Oggi indica un particolare tipo di votazione al quale sono chiamati gli elettori, che consiste in una domanda alla quale si può rispondere solo sì o no. ATTENZIONE: il plurale rimane invariato, poiché si tratta ormai di parola di uso comune. Sponsor: Significato originario: “garante”; entra in italiano passando per l’inglese. ATTENZIONE: il plurale rimane invariato, poiché si tratta ormai di parola di uso comune. Tutor: Entra in italiano a fianco di tutore, ma in questo caso passa attraverso l’inglese e veicola soltanto il significato di “persona di riferimento all’inizio di un nuovo percorso di studi o lavorativo”. ATTENZIONE: il plurale è tutor, MAI tutors, poiché si tratta ormai di parola di uso comune. Virus: Dal latino “veleno”, oggi indica dei particolari organismi submicroscopici parassitari e portatori di malattie. ATTENZIONE: non si pronuncia “vairus”, ma “virus”. QUINDI… Mi raccomando, quando scrivi, non spegnere mai il cervello! Sii attivo, e chiediti sempre cosa stai scrivendo e perché: non cadere nelle trappole dei latinismi travestiti da anglicismi! Quando sei in dubbio, quando qualcosa ti sembra strano o non ti torna, per prima cosa chiediti: “ Ma i miei
Lasagna o lasagne?

Problemi di numero A chi non piace gustarsi un bel piatto fumante di lasagne? Ma anche se tutti concordiamo sulla loro bontà… non tutti concordiamo sul chiamarle al singolare o al plurale. Qual è la forma corretta? Siamo italiani, e indubbiamente il cibo è una componente fondamentale della nostra cultura. Il cibo è un momento di aggregazione e condivisione, una tradizione: non solo ci piace mangiare, ma adoriamo discutere di cibo. E spesso con discussioni molto accese: “Nella carbonara ci va il guanciale e non la pancetta”, “L’ananas sulla pizza è un’eresia”, “Arancina o arancino?” e via dicendo. Ogni regione ha i suoi piatti tipici e i suoi modi particolari di chiamare determinati cibi (pensa all’Emilia-Romagna e al sempiterno dibattito su gnocco-tigelle-crescentine: ormai vivo qui da tre anni, ma ho sempre il terrore di usare la parola sbagliata con l’emiliano sbagliato). Tra tutti i piatti italiani, la pasta è sicuramente uno dei più iconici e amati (e quindi, capace di scatenare discussioni)… e il lessico riflette questo fatto: i nomi per chiamare i tipi di pasta sono tantissimi. E qui entrano in gioco la Penna Rossa e l’argomento di oggi: in mezzo a questo oceano lessicale di infinite varianti e regionalismi, qual è il modo giusto di scrivere lasagne? Al singolare o al plurale? E perché ci sono due forme? A un occhio disattento può sembrare una piccolezza, ma se sei un ristoratore, o in qualche modo la tua azienda ha a che fare con il cibo (ed essendo in Italia è molto probabile), la questione diventa importantissima: non vuoi che i tuoi clienti ti prendano per un incompetente, giusto? E allora, per prima cosa, se non l’hai ancora fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa, in modo da scoprire tutti gli errori da non fare quando scrivi i testi per la comunicazione della tua azienda. E ora… andiamo a scoprire se si scrive lasagne o lasagna! UN PO’ DI STORIA Tutti sappiamo cosa siano le lasagne: sfoglie di pasta alternate a strati di condimento. Una delle ricette più diffuse è quella che prevede ragù e besciamella, ma ovviamente le varianti sono tantissime: bianche, con il pesto, senza carne, con le polpette e via dicendo. Quello che magari non sai è che la storia di questo piatto è molto antica, e risale addirittura al Medioevo (il che le qualifica, probabilmente, come il primo tipo di pasta italiana): se ne trova menzione nel Liber de coquina, scritto alla corte angioina di Napoli all’inizio del Trecento. Questa primissima ricetta prevedeva strati alternati di pasta (cotta nel brodo di cappone) conditi con formaggio grattugiato e spezie; la besciamella è stata un’acquisizione soltanto settecentesca. Fin da subito sono state caratterizzate come “piatto da festa” o da sfoggiare con gli ospiti. Nel Seicento, la cottura divenne al forno e non nel brodo; nel 2003 l’Accademia italiana della cucina deposita ufficialmente la ricetta delle lasagne verdi alla bolognese (con spinaci nell’impasto della pasta e condite con ragù emiliano, parmigiano, burro e besciamella). Nel frattempo, le ricette regionali continuano a moltiplicarsi e prosperare. Ma da dove arriva il nome in sé? L’etimologia è incerta, poiché vi sono diverse ipotesi: Latino: da lasanum, “pentola” Greco: da lavsanon, “treppiede da cucina” Stessa origine di losanga “rombo”, che a sua volta deriva dal gallico lausina, derivato di lausa “pietra piatta” Arabo: lawzig, dolce di mandorle fatto a strati farciti La questione rimane aperta: quello che possiamo osservare, è che dal punto di vista semantico avrebbe senso usare la forma singolare lasagna accostandola al significato di losanga, mentre con la forma plurale si fa di solito riferimento al piatto preparato. Ma questo, come vedremo, non esclude il fatto che le due forme oggi possano essere semplicemente sinonimi. Come lo scopriamo? Consultando i dizionari e andando a ricercare le consuetudini d’uso! QUAL È LA FORMA CORRETTA? A questo punto, è giunta l’ora di consultare la nostra fedele Treccani: laṡagna s. f. [lat. *lasania, der. di lasănum, nome di un recipiente, dal gr. λάσανον]. – 1. a. Forma di pasta all’uovo lunga, tagliata a mano o a macchina in larghe strisce, lisce o leggermente ondulate, lessate e disposte a strati con besciamella e varî altri ingredienti, caratteristica della cucina emiliana e romagnola. Più com. al plur.: un piatto di lasagne; lasagne al sugo, al forno, alla bolognese; un pasticcio, un timballo di lasagne; l. verdi, preparate mescolando nell’impasto un passato di spinaci. La prima cosa che possiamo osservare è che il lemma è in forma singolare (come si usa, in generale, per tutti i lemmi presenti nei vocabolari); tuttavia, la voce segnala che la forma più comunemente usata è quella al plurale. Ampliando la ricerca, scopriamo che nei contesti informali, nei modi di dire e in generale in ambito culinario la forma più diffusa è senza dubbio quella al plurale. Anche in registri linguistici più sorvegliati, come giornali o testi di saggistica, sembra confermarsi la stessa tendenza, ma con un’evoluzione recente. Se andiamo a osservare l’uso scritto nel corso dei secoli, infatti, le due forme si sono sempre alternate, anche se il plurale risultava più diffuso; la forma singolare torna alla ribalta soltanto negli anni 2000. Oggi, di fatto, se cerchiamo “lasagna” su Google (usando le virgolette, altrimenti il motore di ricerca include in automatico “lasagne”), otteniamo 37.700.000 risultati; se invece cerchiamo “lasagne” ne otteniamo 40.700.000. Perciò, ne emerge che le due forme sono usate entrambe e sono entrambe ugualmente corrette. Come abbiamo accennato poco fa, è anche interessante rilevare la recente moda linguistica di usare lasagna (ma anche spaghetto, fusillo, e via dicendo) al singolare, tendenzialmente in contesti informali oppure per cercare di “dare un tono” più alto al testo (tentativo puramente illusorio, perché di fatto non c’è nulla che identifichi la forma singolare come più “letteraria”).
Quante persone servono per scrivere un testo?

Non basta un solo scrittore! Scrivere i testi per la tua azienda è una cosa seria: non può farlo tuo cuggino che ha fatto il liceo Classico ed è “bravo a scrivere”. E nemmeno la stagista che si è laureata in Lettere. A meno che tu non voglia regalare alla concorrenza tutti i tuoi clienti. Punto primo: se vuoi che la tua azienda abbia successo, devi produrre un’enorme quantità di testi. E farlo di continuo! Non è una scelta, non è un’opzione: se vuoi fatturare, DEVI scrivere di continuo. Post sui social, i testi del tuo sito web, newsletter, articoli di blog, magnet, cataloghi, riviste, biglietti da visita, volantini, libri e via dicendo: non puoi trascurarne nessuno. Punto secondo: non puoi farlo a caso. Un testo scritto a caso, non strutturato, che non tocca le giuste leve emotive e non risponde alle domande che stanno nella mente dei tuoi clienti, non verrà da letto da nessuno e sarà inutile: non attirerà nuovi clienti, e non farà tornare i vecchi. Devi scrivere parlando ai tuoi Clienti Su Misura, servendoti della tecnica della Scrittura Persuasiva (il Modellista nella sua rubrica parla proprio di questo: la trovi QUI) Ovviamente, devi anche scrivere bene, evitando tutti gli errori di grammatica e ortografia: altrimenti, i tuoi testi saranno sciatti, tu sembrerai un incompetente e i tuoi lettori si fermeranno al primo errore che trovano. (Questo è esattamente l’argomento di questa rubrica: perciò, se non l’hai ancora fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa!) Punto terzo: se vuoi DAVVERO arrivare al successo, non puoi accontentarti come fa la maggior parte dei tuoi concorrenti. Quindi, una persona sola a scrivere non ti basterà. E non perché in due si producono più testi, ma perché la scrittura in realtà è un processo complesso, composto da diverse fasi, che non possono essere svolte da un’unica persona. Non è pignoleria, è un dato di fatto: continua a leggere e ti mostrerò perché. Quindi, la scelta è tua: vuoi continuare a fare “come fanno tutti”, relegando la scrittura dei testi della tua azienda al primo che capita… o vuoi distinguerti da tutti gli altri producendo testi non solo ben scritti e privi di errori, ma potenti e in grado di mostrare perché SOLO TU sei la soluzione che i tuoi Clienti Su Misura stanno cercando? Allora… cominciamo! PRIMA DI SCRIVERE Il lavoro di scrittura inizia prima di prendere la penna in mano, prima di scrivere una sola parola. Dimentica l’idea romantica dello scrittore che, colto dall’ispirazione, si siede al tavolo e crea il suo capolavoro di getto. Non funziona così. La scrittura è una tecnica, non un dono; e vale ancora di più per la Scrittura Persuasiva, ovvero quella che ti serve quando scrivi per la tua azienda. Questo significa che Non ti serve nascere con “il talento della scrittura” (cosa che comunque sarebbe per una maledizione, come ci spiega il Mastino in QUESTO ARTICOLO) Devi scrivere tantissimo, esercitarti, continuare a scrivere e scrivere ancora… e l’efficacia della tua scrittura non farà che aumentare! Ma torniamo al processo di scrittura. Come primissima cosa, prima di iniziare a scrivere, devi capire cosa devi scrivere, a che scopo e soprattutto PER CHI stai scrivendo. Perché, indovina un po’, non stai scrivendo per te: stai scrivendo per i tuoi Clienti Su Misura! Stampati a fuoco in testa questo concetto: non stai scrivendo per te, ma per i tuoi Clienti Su Misura. Questo significa che quando scrivi devi sempre porti dal loro punto di vista: loro non sanno le cose che sai tu, che sei esperto del tuo settore; loro sul tuo prodotto e su quello che fai hanno in mente domande che a te non verrebbero mai in mente. Quindi, per prima cosa prima di scrivere: identifica il tuo Cliente Su Misura, e scopri quali sono i suoi bisogni (che il tuo prodotto/servizio può risolvere), i suoi dubbi, le sue paure e le sue domande riguardo al tuo prodotto. Tutto questo rientra nella fase di RICERCA, fondamentale prima di scrivere qualsiasi testo: non puoi scrivere nulla, se non sai di cosa stai parlando. Qualsiasi scrittore, anche di narrativa, passa mesi a studiare e fare ricerca prima di scrivere. In questo caso, siccome sei un’imprenditore/imprenditrice, sei già molto esperto nel tuo campo: sai quello che fai, come lo fai, perché lo fai, quali sono sul mercato le alternative a te. Per questo, per te la fase di ricerca si concentra, come abbiamo detto, sui tuoi Clienti! Studia, ricerca, raccogli quanto più materiale possibile e conservalo in maniera ordinata: non sai mai quando ti potrà tornare utile. E quando sarai pronto… sarà il momento di passare alla fase successiva! SI SCRIVE! Siamo quasi al momento di scrivere, ma prima devi ancora fare due cose: Stabilire che tipo di testo devi scrivere (anche se è probabile che tu lo sappia già) Scriverne lo schema Ogni tipo di testo è diverso, e richiede linguaggio e struttura diversi: esattamente come alle superiori ci hanno insegnato che un saggio breve è diverso da un’analisi del testo o da un articolo di giornale (o almeno, avrebbero dovuto farlo, è una delle poche competenze pratiche davvero utili che si imparano a scuola). Quindi, un post per Facebook è diverso da una mail per una newsletter, una landing page o un magnet: cambiano la CTA, il tipo di linguaggio necessario, il grado di complessità e la struttura. Ecco perché ora è il momento di scrivere lo schema del tuo testo! Poiché il tuo scopo è quello di far leggere il tuo testo ai tuoi lettori dall’inizio alla fine, devi creare un percorso, nel quale ogni gradino, seguendo il dialogo mentale del cliente, porti naturalmente a quello successivo… fino all’ultimo, la CTA, ovvero l’azione che tu
Gli ausiliari dei verbi servili

Qual è l’ausiliare corretto? “Non ci sono voluto andare… non avrei dovuto essere pigro!” Secondo te è corretta questa frase? E se invece avessi scritto “Non HO voluto andarci… non SAREI dovuto essere pigro”? Spoiler: nella prima frase i verbi sono tutti corretti, nella seconda il sarei è sbagliato. I verbi: una categoria grammaticale spesso temuta e ostile, perché piena di eccezioni, di regole e quindi di errori che cadono a pioggia. Ricordo ancora con enorme fastidio le “prove di verbi” che mi toccava fare al liceo – si trattava di verbi greci e latini, in realtà; erano veramente insopportabili, odiavo studiare a memoria e quindi in quelle prove la mia media viaggiava intorno al 3. Per fortuna, a te, ora, i verbi latini e greci non servono… ma quelli italiani sì, e da qui non si scappa: quando scrivi i testi per la comunicazione online della tua azienda DEVI saperli scrivere in italiano corretto, se non vuoi passare per superficiale e incompetente. (Perciò, se non l’hai ancora fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa!) Oggi ci addentriamo nella selva dei verbi ausiliari da usare con i verbi servili: le casistiche e le cose a cui fare attenzione sono più di quelle che pensi. Avrei dovuto, sarei dovuto, ho voluto, sono dovuto: a volte, scegliere il verbo corretto da utilizzare sembra un terno al lotto. Tu sei lì tranquillo che scrivi un articolo di blog, un post o una newsletter per i tuoi clienti, e all’improvviso ti assalgono i dubbi esistenziali: Avrei dovuto andare o sarei dovuto andare? Ho voluto essere o sono voluto essere? (Se i dubbi non ti assalgono mai, BACCHETTATE: vuol dire che non stai prestando abbastanza attenzione a quello che stai scrivendo, e dai per scontato che sia tutto giusto!) Per fortuna, la Penna Rossa è qui per te: in questo articolo scioglieremo insieme tutti i dubbi a riguardo! Quindi, affila la tua penna e riscalda la tua tastiera: stiamo per scoprire come scegliere sempre l’ausiliare corretto da usare con i verbi servili! I VERBI SERVILI Prima di tutto: cosa sono i verbi servili? La Treccani li definisce così: I verbi servili (detti anche modali) sono verbi che si combinano con un altro verbo di modo infinito per definire una particolare modalità dell’azione. Ovvero, sono verbi che, se usati in combinazione con altri verbi all’infinito, servono per meglio specificare come una data azione sta venendo compiuta. I verbi servili in italiano sono: Dovere Potere Volere E servono appunto per esprimere: Necessità, obbligo Esempi: Devi stare più attento. Avrei dovuto guardare le previsioni del tempo. Possibilità Esempi: Posso venire da te domani. Puoi passarmi il sale? Volontà Esempi: Voglio tornare a casa presto stasera. Hai voluto fare di testa tua. In generale, possiamo osservare tre cose riguardo ai verbi servili: Reggono un altro verbo al modo infinito, specificandolo meglio Esempi: Devo fare un annuncio. Voglio fare un annuncio. Posso fare un annuncio. Il verbo servile e l’infinito che tale verbo regge devono avere lo stesso soggetto Esempi: Vittorio deve scegliere che tragedia rappresentare. Giacomo vuole scrivere una nuova opera. Possono essere combinati con dei pronomi atoni, che possono essere collocati prima del verbo servile o dopo l’infinito Esempi: Possiamo sentirci domani alle 11. Ci possiamo sentire domani alle 11. Fin qui, non dovrebbero esserci particolari problemi. Ma come si comportano con i verbi ausiliari? COME SCEGLIERE IL VERBO AUSILIARE? Dei verbi ausiliari abbiamo già parlato qualche tempo fa, nell’articolo dedicato agli ausiliari da usare con i verbi atmosferici (Ha piovuto o è piovuto?; se vuoi rileggerlo CLICCA QUI). In brevissimo, si tratta dei verbi essere e avere quando vengono usati in supporto ad altri verbi, come ad esempio per formare i tempi composti (io sono andato) o la forma passiva (tu sei stato visto). Naturalmente, anche i verbi servili hanno tempi composti e forma passiva, perciò in questi casi è necessario usare un verbo ausiliare. Ma come si sceglie tra essere e avere? Non sempre è immediato… ma per fortuna ci sono 4 regole chiare da seguire! Usa lo stesso ausiliare del verbo retto dal servile Esempi: Ho voluto mangiare presto oggi. Ausiliare di mangiare: avere (ho mangiato) Ho dovuto scrivere due articoli oggi. Ausiliare di scrivere: avere (ho scritto) Sono potuto tornare solo ieri. Ausiliare di tornare: essere (sono tornato) Se il verbo che segue il servile è intransitivo, si può usare sia essere che avere Esempi: Ho dovuto uscire. / Sono dovuto uscire. Hai voluto andare. / Sei voluto andare. Se il servile è seguito dal verbo essere, l’ausiliare sarà sempre avere Esempi: Hai dovuto essere forte. (E NON Sei dovuto essere forte.) Ho potuto essere invitato. (E NON Sono potuto essere invitato.) Ha voluto essere il primo. (E NON È voluto essere il primo.) Se l’infinito è accompagnato da un pronome atono (mi, si, ti, ci, vi) bisogna usare essere se il pronome è PRIMA dell’infinito, ma avere se il pronome è DOPO l’infinito Esempi: Mi sono voluta svegliare presto. / Ho voluto svegliarmi presto. Ti sei dovuto occupare delle pulizie. / Hai dovuto occuparti delle pulizie. Si è potuto permettere una pausa. / Ha potuto permettersi una pausa. Il gatto ti giudica se non fai attenzione quando scrivi QUINDI… Oggi abbiamo osservato i verbi servili, e capito come fare a scegliere per loro il verbo ausiliare corretto a seconda dei casi. Le 4 regole base sono: Usa lo stesso ausiliare del verbo retto dal servile Se il verbo che segue il servile è intransitivo, si può usare sia essere che avere Se il servile è seguito dal verbo essere, l’ausiliare sarà sempre avere Se l’infinito è accompagnato da un pronome atono (mi, si, ti, ci, vi) bisogna usare essere se il pronome è PRIMA dell’infinito, ma
Come scrivi Ferragosto?

Occhio a quella maiuscola! Tutti pronti a grigliare e bere, ma… come si scrive Ferragosto? E perché? Ferragosto è una festa solo italiana: cade il 15 agosto e in Italia si ferma TUTTO. Sarà il caldo, sarà il fatto che viviamo di tradizioni, ma di fatto a Ferragosto in tantissimi vanno in vacanza e tantissime aziende chiudono per ferie (e se ci segui da un po’, sai che su questo punto il Sarto ti fulmina… se intanto vuoi un assaggio, lo trovi in QUESTO ARTICOLO del Modellista). Quindi, dopo l’atroce tormentone delle settimane precedenti “Cosa fai a Ferragosto?”, il 15 prendono il via picnic, grigliate, falò, gite al mare e via dicendo. Cascasse il mondo, in Italia il Ferragosto sembra quasi sacro. Eppure… nel resto del mondo non è così: Ferragosto non esiste, il 15 agosto è un giorno uguale a tutti gli altri. Ti sei mai chiesto perché invece in Italia è così importante? Sicuramente, le origini di questa festività sono molto antiche, ma è anche vero che la data originaria era un’altra, e che la festa ha subito diverse rivisitazioni nel corso della storia… tanto che oggi non si è perso completamente il legame con queste origini. In sostanza, oggi tutti fanno festa, ma quasi nessuno sa perché. Ma anche se tra poco lo scopriremo, non è questo il punto che ci interessa di più oggi! Noi vogliamo sapere come si scrive Ferragosto e perché: sappi che la maiuscola NON è un optional! Poi sorgerà spontanea un’altra domanda: perché Ferragosto va scritto maiuscolo, ma agosto e ferragostano no? Perché, come sempre, noi siamo qui insieme per parlare di come scrivere bene i testi per la comunicazione online della tua azienda… perciò, se non l’hai ancora fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa! E ora… andiamo a scoprire come scrivere correttamente tutti i tuoi testi che parlano di Ferragosto! UN PO’ DI STORIA Ferragosto affonda le sue radici in epoca romana: la parola stessa deriva da Feriae Augusti, ovvero riposo di Augusto. Nel 18 a.C. l’imperatore Ottaviano Augusto decretò che il mese di agosto fosse appunto un periodo di riposo e feste, riagganciandosi alla tradizione già esistente dei Consuali, ovvero le feste che celebravano la fine del raccolto. Successivamente, le numerose feste presenti nel mese di agosto vennero riunite sotto un’unica grande festività che andava dal 1 al 30 agosto, chiamata Feriae Augustales. In questo periodo i templi della città venivano lasciati aperti, i banchetti offerti dallo Stato erano numerosi e venivano organizzati giochi e corse… e ovviamente, tutti erano in vacanza. Con il passare dei secoli, il Ferragosto passò ad essere soltanto il primo giorno del mese di agosto, ma conservò la sua tradizione di feste e banchetti. Inoltre, si affermò la tradizione dei lavoratori che in quel giorno andavano a porgere i loro auguri ai datori di lavoro, che ricambiavano con mance e cibo. Dopodiché, intorno al VI secolo, la Chiesa Cattolica tentò di assimilare questa festa pagana trasformandola nella celebrazione della Dormizione di Maria, fissandola il 15 agosto (molto vicino al 13 agosto, data dell’amata festa al tempio di Diana Aventina). Il dogma dell’Assunzione venne riconosciuto soltanto nel 1950; ma già dal 1929, nel Trattato tra la Santa Sede e lo Stato italiano venne stabilito che il 15 agosto rientrasse tra i giorni festivi decretati dalla Chiesa e riconosciuti dallo Stato. Tuttavia, le tradizioni popolari sono dure a morire. Perciò, il Ferragosto, così come testimoniano numerose edizioni storiche del dizionario della Crusca, venne lungamente usato (fino al Novecento) per indicare il 1 agosto. A consolidare il Ferragosto del 15 come festività popolare dedicata al turismo con la famiglia contribuì in larghissima parte il ventennio fascista, che inaugurò la tradizione della gita fuori porta con annesso pranzo al sacco. Il ministero delle Comunicazioni, infatti, istituì i cosiddetti “treni popolari di Ferragosto”, che a prezzi assai ridotti, nei giorni intorno al 15 permettevano a moltissime persone di raggiungere le località turistiche. Oggi, le tradizioni popolari di Ferragosto sono moltissime: ogni regione, ogni città ha le proprie, che vanno da diverse declinazioni di Palio, a rievocazioni popolari, bagni di mezzanotte, sagre, processioni, fuochi artificiali e via dicendo. Ma ora che sappiamo esattamente come e quando nasce… come si scrive Ferragosto? COME SI SCRIVE? Io so che tutti pensano di saperlo scrivere benissimo. D’altronde, si tratta di una sola parola che si scrive evidentemente tutta attaccata. Vero, ma… hai fatto caso alla lettera iniziale? Va SEMPRE scritta maiuscola. Ferragosto. Non è una libera scelta o una questione stilistica: Ferragosto va sempre scritto con la lettera maiuscola, perché, come abbiamo appena visto, si tratta di una festività ufficiale. E questi nomi, in italiano, esattamente come Natale o Pasqua, si scrivono sempre con l’iniziale maiuscola! (Ne abbiamo parlato in QUESTO ARTICOLO.) Invece… agosto si scrive sempre minuscolo, come tutti i nomi dei mesi e quelli dei giorni della settimana. In ambito anglosassone, la convenzione è diversa, perciò se per lavoro hai spesso a che fare con documenti in lingua inglese potrebbe sorgerti il dubbio, perché appunto in inglese sia i nomi dei mesi che dei giorni della settimana si scrivono con l’iniziale maiuscola. Ma non in italiano! Anche l’aggettivo ferragostano vuole l’iniziale minuscola, perché appunto si tratta di un aggettivo, esattamente come natalizio, pasquale o domenicale. Ma mi raccomando: Ferragosto scrivilo sempre con l’iniziale maiuscola! QUINDI… Oggi abbiamo capito perché si festeggia Ferragosto, ma soprattutto che Ferragosto si scrive SEMPRE con la lettera maiuscola! Se hai altri dubbi, o qualcosa che ti piacerebbe scoprire riguardo alla lingua italiana e all’ortografia, scrivimelo nei commenti e sarò felice di risponderti. Ora tocca a te! Vuoi scoprire come far decollare il fatturato della tua azienda, rendendo i tuoi testi parte di una strategia
Meglio e migliore

Attento agli avverbi! Sei sicuro di saper usare meglio/migliore sempre nel modo corretto? So che sembra facile, ma… si tratta di un argomento insidioso, dove i dubbi e gli errori sono dietro l’angolo, come ora scopriremo. Primo esempio: scommetto che ti è capitato almeno una volta di sentir dire “più meglio” e storcere il naso (almeno, spero che tu abbia sentito che c’era qualcosa che non andava)… e magari di usare tu stesso la locuzione “meno peggio”. So che sembrano simili, ma la prima è un erroraccio da Penna Rossa, la seconda no. Eppure, in entrambi i casi si tratta di avverbio + avverbio usato in forma aggettivale: perché uno è corretto e l’altro no? E ancora: quante volte capita di vedere meglio/migliore usati come se fossero sinonimi? Perché non lo sono: i loro usi sono diversi, e usare uno al posto dell’altro e viceversa è sbagliato. E non è finita: “molto migliore” si può usare? Sì, ma non sempre. Scommetto che ora ti sembra tutto un po’ confuso e inutilmente complicato, ma non disperare: oggi andremo a fare luce su tutte queste domande una volta per tutte! Perché? Per rendere i testi per la comunicazione online della tua azienda sempre più corretti ed efficaci: ricorda, loro sono il tuo primo biglietto da visita verso clienti e potenziali clienti. Più saranno ben scritti, più ne conquisteranno! Perciò, se non l’hai ancora fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa! E ora… sei pronto a capire come usare meglio/migliore nella maniera corretta? Andiamo a scoprirlo! MEGLIO E MIGLIORE Come sempre, partiamo dalle basi e inquadriamo ciò di cui stiamo parlando con l’aiuto del dizionario: mèglio avv. e agg. [lat. mĕlius, neutro di melior -oris (v. migliore)]. – 1. avv. a. Funge da comparativo dell’avv. bene, e significa perciò più bene, in modo migliore: oggi mi sento m.; riesce m. nelle materie letterarie che in quelle scientifiche; vedo meglio con l’occhio destro che col sinistro; con queste scarpe cammino m.; […]. Si usa anche davanti a participî passati (soprattutto a quelli che sono di solito specificati dall’avv. bene o male, formando con essi quasi un’unica locuzione), per esprimere un concetto comparativo: è m. vestito di te; oggi ti trovo m. preparato; questa volta m’è sembrato m. disposto verso di me; e preceduto dall’art. per esprimere il concetto del superl. relativo: le opere m. riuscite (ma talora equivale a «più»: i m. dotati). Con valore di superl. relativo, anche nella locuz. il m. possibile, nel miglior modo possibile: vedrò di ripararlo il m. possibile. […] 2. agg., invar. Equivale a migliore (o al plur. migliori), con cui tuttavia non sempre si può sostituire, anche perché ha senso più generico. In pratica: meglio è avverbio e aggettivo. Quando viene usato con valore avverbiale funge da comparativo dell’avverbio bene (con il significato di “più bene”). Quando viene usato con valore aggettivale, equivale a migliore, anche se, ATTENZIONE, non sempre può sostituirlo. miglióre agg. [lat. mĕlior -ōris, compar. di bonus «buono»; cfr. meglio]. – 1. È il compar. di buono, molto più com. del compar. regolare più buono in quasi tutti i sign. dell’aggettivo (esclusivam. più buono, però, per indicare la fondamentale bontà d’animo soprattutto nei rapporti con altre persone: lo ritengo più buono di te; ha un animo più buono, e sim.; o quando ci si riferisce al comportamento più o meno tranquillo dei ragazzi, alla disciplina degli alunni in classe, e sim.: vediamo chi di voi sarà più buono). Può essere modificato da avverbî: appena, un po’, assai, molto, infinitamente migliore; preceduto dall’art. determ. ha valore di superl. relativo: è il m. di tutti noi. In pratica: migliore è un aggettivo. Nello specifico, è il comparativo di maggioranza di buono (decisamente più usato della forma regolare più buono). Quando preceduto da articolo, ha valore di superlativo relativo. Fin qui, tutto sembra molto chiaro e lineare. Tuttavia… hai fatto caso a quel valore aggettivale di meglio che però non va bene sempre? Questo e l’abbinamento con più/meno e molto sono i problemi cruciali: quali sono quindi gli usi corretti? USI È il momento di andare a sconfiggere gli errori uno per uno! Finora non lo avevo ancora specificato, ma tieni a mente una cosa: noi stiamo parlando di meglio e migliore, ma lo stesso identico discorso vale per peggio e peggiore. Meglio per migliore Ovvero, quando possiamo usare meglio con valore aggettivale? Quando meglio è comparativo di maggioranza retto da verbi come essere, sembrare, parere In questo caso, meglio al posto di migliore è molto comune nella storia della lingua e totalmente accettato dalle grammatiche. Esempi: Tu sei meglio di lei. Questo hotel sembra meglio dell’altro. Quando invece è da evitare? Quando meglio viene preceduto da articolo determinativo e prende il valore di superlativo relativo In questo caso, si tratta di un uso popolare e informale: nei testi scritti, evitalo! Anche se si tratta, infatti, di un uso largamente diffuso nella lingua italiana tra ‘700 e ‘900, rimane un costrutto marcato del parlato popolare. Quindi, a meno che non tu non voglia consapevolmente fare dell’ironia, evitalo sempre. Esempi (da non seguire): La meglio gioventù Il meglio vino, le meglio cose, i meglio professori Meno peggiore e meno peggio sì; più migliore e più meglio no I primi due sono corretti; i secondi due NO. Eppure, la struttura è la stessa: una costruzione con gli avverbi più/meno prima del comparativo. Tuttavia, in questo caso dobbiamo tener conto della componente semantica, ovvero: Più migliore/più peggiore: NO Migliore non ha bisogno dell’avverbio più, perché il concetto di “più bene” è già compreso in migliore. Stesso discorso vale per più peggiore: è un errore, perché peggiore è già al massimo grado di cattivo, più sarebbe ridondante. Più meglio/più peggio: NO Semplicemente scorretto, perché in questo caso la forma corretta da usare è migliore/peggiore.
Ha piovuto o è piovuto?

I verbi ausiliari Ho andato a scuola, io! Quante volte ti è capitato di sentire, o di dire, frasi simili con voluto effetto parodico? (Perché so che non diresti mai una cosa simile, è talmente sbagliata che fa rabbrividire solo a sentirla!) Quello che magari non sai è che esiste effettivamente un motivo per cui usare l’ausiliare sbagliato ci fa ridere: si tratta di uno degli errori più frequenti di chi sta imparando la lingua italiana. Un parlante madrelingua, infatti, difficilmente commetterà questo errore; ma per chi sta imparando l’italiano da zero non è così semplice, e il sistema dei verbi ausiliari è più complesso di quanto si pensi. Tuttavia… non penserai di essere immune? Perché non lo sei! Magari non commetterai errori simili a quello della frase che apre l’articolo, ma ci sono casi in cui anche i parlanti italiani cadono, quindi non abbassare la guardia! Ad esempio, diresti ha piovuto o è piovuto? E perché? E se invece ti chiedessi in base a cosa scegli quale verbo ausiliare usare? Come vedi, è più complicato di quanto si pensi… ecco perché oggi ne parliamo insieme: si tratta di uno di quegli argomenti che devi saper padroneggiare, se vuoi che i testi della comunicazione online della tua azienda siano impeccabili! E non per sfizio, ma per porti un gradino più su rispetto ai tuoi concorrenti e per far sì che i tuoi testi siano magneti attira-clienti… perciò, se non l’hai ancora fatto, CLICCA QUI per iscriverti alla newsletter e non perderti neanche un articolo della Penna Rossa! E ora… sei pronto a capire se si dice è piovuto o ha piovuto… e perché? Andiamo a scoprirlo! ESSERE E AVERE COME VERBI AUSILIARI Per prima cosa, partiamo dal principio: cosa sono i verbi ausiliari? Vediamo cosa dice la Treccani: Ausiliari (dal lat. auxilium «aiuto» + –āris) si chiamano alcuni verbi che, oltre al loro uso e significato autonomi (➔ ), se impiegati in unione con le forme non finite di altri verbi, svolgono una funzione di ‘aiuto’ nei confronti di questi ultimi in diversi modi. A questa categoria appartengono tipicamente essere (io sono partito), avere (Carlo ha mangiato) e alcuni altri. Quindi, quando fungono da ausiliari, essere e avere “aiutano” altri verbi a esprimersi. Ma in che modo? Verbo AVERE Serve per formare i tempi composti dei verbi transitivi attivi. Esempi: tu hai amato, egli aveva letto, essi avrebbero colpito Verbo ESSERE Serve per formare: La forma passiva dei verbi Esempi: sono stato derubato, è stata bevuta, fu dipinto I tempi composti dei verbi impersonali e riflessivi Esempi: mi è sembrato, mi sono vestito Fin qui, tutto è chiaro e lineare. Ma cosa succede con i verbi intransitivi, come nascere, crescere, partire, viaggiare? In questo caso, devo purtroppo dirti che la scelta dell’ausiliare non segue criteri costanti e regolari. Questo però non vuol dire che si possano usare a caso: ogni verbo vuole il suo ausiliare, e usarne uno al posto di un altro sarebbe un errore! Possiamo però individuare una linea di tendenza generale: si usa “avere” come ausiliare con i verbi che indicano un’azione effettivamente compiuta dal soggetto, e “essere” con quelli che indicano un’azione subita dal soggetto. Esempi: ho letto, ho scritto sono nato, sono cresciuto Ovviamente, esistono le eccezioni e molte altre casistiche… e oggi ne vediamo una in particolare, perché si tratta di verbi particolarmente frequenti: i verbi atmosferici! E CON I VERBI ATMOSFERICI? Ora veniamo ai protagonisti di oggi: i verbi atmosferici! Come puoi facilmente intuire, si tratta di quel gruppo di verbi che servono per esprimere i diversi fenomeni atmosferici: piovere, nevicare, grandinare, tuonare e via dicendo. Si tratta di verbi impersonali, che diventano personali solo nel caso in cui il soggetto sia goccia (o simili, a seconda del verbo) o quando vengono usati in senso metaforico. Ma che ausiliare vogliono? Qui sfatiamo subito un mito. Fino a qualche decennio fa, nelle scuole veniva insegnato che questi verbi, in quanto impersonali, richiedessero obbligatoriamente l’ausiliare essere. Tuttavia, la forma “ha piovuto”, originariamente usata solo in contesti informali, si è diffusa talmente tanto che oggi… sia ha piovuto che è piovuto sono considerate forme ugualmente corrette da tutti i dizionari. Perciò, possiamo scrivere: Ieri ha piovuto per mezz’ora. Oggi è piovuto abbondantemente. E non ci sono errori, né distinzioni di significato o registro linguistico. Però, occorre fare attenzione: quando questi verbi vengono usati in maniera personale, ovvero con un soggetto ben preciso e usando significati figurati e traslati, la situazione cambia e la scelta dell’ausiliare non è più libera. In questi casi, è necessario scegliere essere! Ad esempio: Una singola goccia è piovuta dal cielo. (E NON ha piovuto) Sono fioccate multe. (E NON hanno fioccato) Sono piovute critiche. (E NON hanno piovuto) QUINDI… Oggi abbiamo visto come funzionano i verbi ausiliari usati per verbi atmosferici: HA PIOVUTO / È PIOVUTO sono ugualmente corrette. Se questi verbi vengono usati in maniera personale (e non impersonale), l’ausiliare richiesto è ESSERE. In caso di dubbio? Consulta sempre il dizionario! Ora tocca a te! Sei impaziente di metterti alla prova per toccare con mano quanto i testi della comunicazione online della tua azienda possono essere potentissimi magneti-attira clienti, quando inseriti in una strategia di Comunicazione Su Misura? Allora non aspettare: è uscito il SECONDO libro del Sarto: COMUNICAZIONE SU MISURA: la STRATEGIA DIGITALE che porta la tua azienda al SUCCESSO! Sei pronto a imparare le tecniche del Sarto per impostare la strategia in grado di portare alla tua azienda il fatturato che hai sempre sognato? Clicca qui per acquistare subito la tua copia! E per scoprire altri errori da NON fare… … ci vediamo lunedì prossimo! La Penna Rossa BIBLIOGRAFIA BARATTER P., Il punto e virgola. Storia e usi di un segno, Carocci, Roma 2018. BECCARIA G.L., Dizionario di